Dai burattini del "Tamerlano" una rosa per Carmelo Bene

Dieci anni fa moriva il grande attore e drammaturgo, forse l'unico genio che il '900 ci ha donato. VIDEO: Il monologo di Amleto

Dai burattini del "Tamerlano" una rosa per Carmelo Bene

"Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza del talento". Bene. Lo sapeva, era consapevole d'essere stato l'unico genio che il '900 ci ha donato, forse perché gli toccò il destino d'apparire alla Madonna fin da bambino, in mezzo alle esalazioni di tabacco e ai graffianti incensi della terra d'Otranto - l'Africa che si spinge sui nostri lidi con i suoi miraggi incestuosi di madre terra amorevole verso i figli in un raggio delle stelle - da lui molto amata. Carmelo Bene. Questo nome abbiamo cercato nell'agosto 2002, a pochi mesi dalla sua morte avvenuta il 16 marzo di quell'anno, nel cimitero di Campi Salentina, dove era nato il 1 settembre 1937. Una vecchietta ci dice: "Non è sepolto qui. E' a Otranto", raccontandoci di ricordarlo bambino che faceva teatro in quelle stradine con marionette costruite da lui. E con i burattini avrebbe voluto finire, grazie al progetto di un "Tamerlano" di Marlowe con pupazzi giganti da mettere in scena all'Arena di Verona, dove una volta, ancora piccolo, sentendo l'opera disse: "Ma questi tenori quando cominciano a cantare veramente?".

Cantò lui. Un canto ancora oggi definito difficile, dissacrante, incomprensibile, schizofrenico. Geniale, quando il genio viene dall'amore per un amore che non ci sarà mai. Lui fu la voce. La sola voce, intesa nell'antico senso di "phoné", non del nostro palcoscenico, ma del nostro "tempio", visto che fu proprio il palcoscenico la prima ara sacrificale che l'uomo costruì.

Shakespeare, Leopardi, Manzoni, Holderlin, Dino Campana si sformarono e tornarono a rigenerarsi in un corpo nuovo, né scrittura, né teatro, nell'utero sempre in doglia di quella phoné per incranarsi alfine nella forma più sonora, melodica, classica che la modernità abbia mai conosciuto. La voce si fece spazio. Spazio dell'assenza di un vile quanto inutile recitato, confine dell'indicibile, soglia in cui il detto svaniva dalla gabbia della ragione, del senso, del discorso, per entrare fluida nel corso di un dire poetico dis-torto dalla retta via del logos e ri-sorto nell'immensa polifonia di una musicalità umana purificata in uno strumento nuovo e amplificata in unastrumentazione antica, senza gola, senza diaframma, senza viscere. Solo Spirito. Fu la crisi della re-citazione, del ri-dire a memoria il testo scritto altrove, e l'inizio di una citazione del testo in diretta, smembrato, introiettato, sbranato, disossato fino all'urlo e al silenzio di una phoné divina che solo altrove aveva la luce creativa, una luce che ti piombava addosso rendendoti passivo alla visione. Perché era manifestazione.

"Sono apparso alla Madonna": è un passivo, perché passiva è l'estasi, l'orgasmo, il punto in cui ogni nostra azione non si compie ma è compiuta da una bellezza di cui noi non siamo attori ma contenitori. Il suo amato Rilke avrebbe detto nell'ultima delle Elegie Duinesi: "E noi, che pensiamo alla felicità come ascesi, avremmo l'emozione, che quasi sgomenta, che una cosa felice, cade".

Lectura Dantis. Dalla Torre degli Asinelli a Bologna. 31 luglio 1981, per commerare la strage della stazione. La voce di Carmelo Bene che cade sulla folla atroce e dice alla fine: "Spegnete le luci del leggio, spegnete le luci del leggio!". Ecco questo il suo eterno testamento musicale. Luci spente sul leggìo, perché dopo la sua morte, nessuno, nessuno si è mai più cantato nella parola in quel modo. A lui solo un canto degno di un Nobel, mai ricevuto, perché come disse "per capire un poeta, un artista, a meno che questo non sia soltanto un attore, ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista". E di artisti al mondo non ce ne sono più solo talenti politici o televisivi. Il materialismo li ha uccisi, il divismo li ha rammolliti.

Raggiungemmo il cimitero di Otranto in quel giorno d'agosto 2002. Un dedalo barocco, quel barocco di rose sconfinate nelle circonferenze da cui le farfalle eesco confuse, che lui adorava. Labirinto di tombe. Se Carmelo Bene fu un vento, soffiava dove voleva. All'improvviso in mezzo a un corridoio appare una farfalla gialla. La seguimmo, la farfalla sembrava volerlo. Ci condusse alla tomba della famiglia Bleve. Dentro una lapide e solo un nome: Carmelo Bene.

Perché solo nel nome sta la rosa e nella tua Carmelo, nella tua voce che Dante avrebbe messo nella rosa mistica, e anche Rilke, noi farfalle entrammo anche solo per poco, per uscire confuse in un volo chiamato solo Bellezza. Di quella che non s'usa più. Troppo antica la sua assenza. Grazie.

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