La pirateria odierna è semplice come quella antica, a differenza di quella del XIV-XVIII secolo (dal Basso Medioevo all'inizio dell'epoca moderna), complicata invece dal fenomeno della «guerra di corsa», per la quale i monarchi rilasciavano a privati cittadini «lettere di marca», o «lettere di corsa», che li autorizzavano ad attaccare navi nemiche ricavandone un profitto personale. (...)
Per i regnanti era una maniera molto efficiente di condurre una guerra: le loro grandi navi erano molto costose da costruire e da gestire, e se si impadronivano di vascelli e carichi dei nemici, a capitani ed equipaggi era comunque consentito di intascare una parte del bottino, mentre tutte le spese erano a carico del re.
Al contrario, i corsari potevano provocare al nemico danni anche molto gravi senza costi per la Corona, che anzi ricavava un beneficio come socia dell'impresa. Si trattava infatti di un sodalizio d'affari, non di uno stile di vita, in quanto i bucanieri erano veri imprenditori, e dovevano perciò attirare investitori per acquistare e armare le proprie navi, nonché motivare gli equipaggi a impegnarsi in un mestiere pericoloso pagando loro un'indennità o rendendoli partecipi agli utili.
Lo stesso avviene nell'attuale pirateria, che ha investitori, imprenditori e personale con diversi livelli di competenze. Il fenomeno non è misterioso, in parte perché ben documentato da dati di continuo aggiornati e distribuiti dall'International Maritime Bureau della Camera di Commercio Internazionale, la quale fornisce un quadro più ampio rispetto alla mia personale esperienza nelle acque indonesiane.
Nel caso dell'arcipelago indonesiano, i pirati-imprenditori non hanno in pratica bisogno di finanziatori, poiché utilizzano piccole imbarcazioni (il grande vascello pirata spesso avvistato fra Bali e Lombok è una nave da crociera per turisti) e non trattengono prigionieri per ottenerne un riscatto, cosicché i loro costi del capitale sono esigui. (...)
I pirati indonesiani non hanno costi di magazzinaggio perché, dopo essersi impadroniti di quanto interessa loro, abbandonano le navi assaltate. In molti casi però uccidono i prigionieri, e non a casaccio: per lo più essi sono originari di città portuali nelle quali vige una cultura jihadista più o meno radicata (soprattutto nelle due isole di Sulawesi e Sumbawa), e si contano numerosi incidenti in cui sono stati uccisi pescatori non musulmani (per esempio, cristiani di Flores). Al contrario, quando sono stati attaccati e abbordati panfili australiani sulla rotta Darwin-Kupang(Timor Ovest)-Bali, i pirati si sono in genere limitati a rubare oggetti di valore in bella vista.
La pirateria somala è iniziata sulla stessa scala ridotta, ma si è trasformata in un'impresa che necessita di maggiori investimenti; di conseguenza, è stata rilevata dagli imprenditori con maggiori possibilità finanziarie in una terra poverissima: gli importatori della droga preferita dai somali, l'anfetamina naturale khat proveniente da Kenya, Etiopia, Yemen e Uganda. Il capitale è necessario perché questa pirateria non mira a impadronirsi del carico (non esistono strutture per manovrare i container né terminali petroliferi), ma solo a tenere in ostaggio navi ed equipaggi chiedendo un riscatto: fra la cattura e il rilascio può trascorrere molto tempo - a volte passano settimane prima che possa iniziare un dialogo negoziale - e nel frattempo i pirati trasformati in carcerieri (così come gli equipaggi prigionieri) devono essere nutriti, nonché pagati. Per l'imprenditore perfino le imbarcazioni sono costose: sebbene ognuna di esse non sia troppo cara - si tratta di semplici scafi con motori fuoribordo - per trovare obiettivi adeguati nella vastità dell'oceano bisogna metterne in mare parecchie.
Ora in declino, la pirateria somala esplose in termini sia quantitativi sia qualitativi dopo un certo numero di spettacolari sequestri, in particolare di petroliere. Una singola petroliera Suezmax può trasportare fino a 200mila tonnellate di greggio, ossia 1,5 milioni di barili che possono facilmente valere 150 milioni di dollari... Fu questa espansione che alla fine diede luogo a una massiccia e articolata reazione: in molti casi venne tolto il divieto di trasportare armi a bordo (non sulle navi tonniere spagnole), in modo tale che i mercantili non fossero più privi di difese; marine militari grandi e piccole iniziarono un'attiva caccia ai pirati con successo sempre crescente. Alla fine, come confermato dalle statistiche IMB, la pirateria somala cominciò a ridursi. I due sfortunati «marò» italiani rientrano nel quadro di questa reazione all'espandersi della pirateria somala. Si teme però che possano essere stati inviati in azione senza un adeguato addestramento, poiché quando si naviga in acque tropicali le navi vengono spesso avvicinate da piccole imbarcazioni: venditori di souvenir, pescatori che offrono il frutto del loro lavoro, ma anche funzionari delle capitanerie di porto e poliziotti che, non disponendo di un'imbarcazione propria, prendono in prestito una barchetta qualunque per ispezionare bastimenti da poco all'ancora.
Nelle acque indonesiane, per esempio, prima di procedere all'affondamento delle imbarcazioni dei pirati la prassi era quindi attendere che mostrassero le armi o addirittura sparassero, prassi che si poteva seguire in tutta sicurezza perché, come in Somalia, la potenza di fuoco degli assalitori era irrilevante.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.