Un elegante tocco di giallo per l'Italia in camicia nera

Un poliziesco per ogni anno del Ventennio: è "Sbirri di regime", raccolta di racconti in cui crimini e misteri si intrecciano con la storia del Paese durante il fascismo

Un elegante tocco di giallo per l'Italia in camicia nera

A settant'anni dalla Liberazione, e a settantacinque da quel drammatico annuncio, scocca l'ora di un'altra «decisione irrevocabile». Niente paura, veniamo in pace (e con prosperità di firme) a parlarvi di un nuovo, gustoso revisionismo: quello sull'Italia in camicia nera ma con un tocco di giallo. Guidati da un bonario Duce, 26 arditi si sono dedicati alla missione di riscrivere la storia del genere noir-poliziesco ai tempi di Mussolini, dal 1922 al 1945.

Con modi tutt'altro che dittatoriali, Gianfranco de Turris ha arruolato i suoi uomini e affidato loro un anno a testa di ordinaria follia delittuosa (con un paio di sconfinamenti in un biennio e in un quadriennio). Ne è uscita un'antologia di racconti in cui le trame di crimini e misteri s'inseriscono alla perfezione nel solco della Storia, come confermano le bibliografie riportate in calce alle narrazioni. Nessuna apologia di reato, nessun tentativo di ricostituzione del partito fascista. Al contrario, qui la lingua degli autori di oggi batte su un dente assai dolente durante il regime, quando si tendeva a mettere il silenziatore ai casi di cronaca nera come quello di Leonarda Cianciulli, «la saponificatrice di Correggio», e soprattutto, in nome dell'autarchia, a rifiutare l'importazione di un prodotto derivante dalla «perfida Albione».

A mo' di introduzione, accanto a quelle dello stesso de Turris, suonano perfettamente queste parole, scritte da Emilio Radius sul Corriere della Sera il 29 aprile del '39: «Il problema del romanzo giallo è un problema autarchico ed è un problema morale. Il romanzo giallo italiano, se è destino che si debba scrivere anche noi romanzi gialli, per non importarne troppi e per non importare, con la carta stampata, costumi, usi e vezzi, dovrebbe uniformarsi al vero ragionevolmente drammatizzato e non cadere in una manieraccia dalla quale è poi impossibile spremere una stilla di commozione o di interesse non effimero: ingegnarsi di descrivere davvero la lotta della giustizia contro la delinquenza, fare un uso prudente ed accorto dei necessari artifici e lasciar posto alla realtà». Ecco, la «realtà». Quella che, a esempio, permeava le inchieste del commissario De Vincenzi di Augusto De Angelis, ma anche i libri diciamo così «militanti» di Carlo Brighenti, con il suo commissario Orazio Grifaci del Servizio Speciale della Polizia Criminale, e di Romualdo Natoli, con l'ispettore nazista Welf Schurke, della Polizia Criminale di Berlino.

Certo, il giallo è fictional per definizione, da Edgar Allan Poe in giù, e questa raccolta lo conferma, ma rende al meglio quando è insaporito dai protagonisti della cronaca. Qui, per l'appunto, troviamo Mussolini in persona, suo fratello Arnaldo, il papa Pio XI, il capo della Polizia Arturo Bocchini, e letterati come Marcello Gallian e Aldo Palazzeschi, ed esoteristi come Aleister Crowley, Guido De Giorgio, Julius Evola, e scienziati come Ettore Majorana, Guglielmo Marconi, Mario Giacomo Levi, e giornalisti come Indro Montanelli, e pittori come Ottone Rosai, e personaggi come Amerigo Dumini, il capo della squadra fascista che sequestrò e uccise Giacomo Matteotti. Addirittura spunta un «omaggio» al commissario Francesco «don Ciccio» Ingravallo, chiamato da Carlo Emilio Gadda a indagare su Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ...

Insomma, Sbirri di regime. Crimini nel Ventennio (Bietti, pagg. 620, euro 19) che annovera fra gli altri due big del genere ucronico di ambientazione fascisteggiante come Pierfrancesco Prosperi e Mario Farneti, è una lunga marcia non soltanto su Roma, ma sull'intero Paese, tra figli della Lupa e di buona donna, balilla e balenghi, vendicatori e vendicati, sporcata dal sangue dei vinti e dei vincitori.

Si parte, con il racconto di Gabriele Marconi, proprio da un fresco reduce della Marcia su Roma alle prese con un annunciato attentato anarchico in quel di Vado, paese ligure rosso-nero per eccellenza, nel 1922, e si arriva al 1945, con quello di Maurizio Ponticello, cioè ai sussulti finali (o quasi) dell'Italia mussoliniana, dove la partigiana Floriana Mussi, dopo aver preso a calci il tenente Temistocle Girolàmi, «si guardò le unghie corte e sporche di terra, ricordò quando erano lunghe e laccate, prima che scoppiasse il finimondo conduceva una vita da signora.

Le chiuse con rabbia nel palmo, sferrò un pugno al volto del recluso, si passò la mano intorpidita con le dita a pettine tra i capelli ricci stendendoli per un attimo e fece come per andarsene».

Il regime era finito, ma i delitti no, la Liberazione non aveva liberato la nazione dalla catena di delitti. Questi innocui racconti sono lì a ricordarcelo.

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