Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Eroi in fiamme. Makuch e gli altri che sfidarono l'Urss (Mauro Pagliai Editore) di Dario Fertilio e Olena Ponomareva
La mattina del 5 novembre 1968 un uomo sui quarant’anni, di aspetto distinto e i capelli ricciuti pettinati all’indietro, entrò nell’edificio delle Poste Centrali sulla via Chreščatyk, in pieno centro di Kyiv, sull’angolo con l’allora piazza Kalinin. Si chiamava Vasyl’ Makuch. Teneva in mano una busta rigonfia, indirizzata al Comitato centrale del Partito comunista dell’Ucraina, che impostò regolarmente prima di allontanarsi. Un paio d’ore più tardi, l’uomo mise in atto il proposito manifestato nella lettera, e si diede fuoco davanti a tutti sulla stessa via Chreščatyk, per protestare contro l’invasione di Praga e la russificazione del Paese. La scena fu tale da lasciare un ricordo indelebile fra i passanti. Makuch corse avvolto dalle fiamme e gridando: “Via i colonizzatori!”, “Viva l’Ucraina libera!”, “Giù le mani dalla Cecoslovacchia!”. In quel momento il centro della città era gremito di gente, ma pullulava anche di polizia e di agenti dei servizi segreti in borghese. Tanto dispiegamento di forze si giustificava col fatto che, alla vigilia del venticinquesimo anniversario della liberazione di Kyiv dai nazisti, si preparavano i festeggiamenti. E quel giorno coincideva anche con il cinquantesimo della rivoluzione bolscevica, celebrato in pompa magna in tutta l’Unione Sovietica.
Gli agenti si precipitarono ad accerchiare la torcia umana e ad allontanare la folla. Nel frattempo Makuch era caduto a terra, e un agente di polizia aveva tentato di spegnere le fiamme servendosi della sua divisa. (Per un caso fortuito, il poliziotto era nato nello stesso villaggio di Vasyl’ Makuch, Kariv. Si chiamava Mykola Mazur. Ma la sua prontezza non bastò a salvarlo, poiché anche l’intervento provvidenziale degli angeli custodi a volte fallisce il suo scopo). La morte, provocata dalle ustioni diffuse sulla maggior parte del corpo, sopravvenne dopo immani sofferenze alle undici di sera del giorno successivo.
Viene naturale, nella prospettiva storica di oggi, paragonare quel gesto estremo all’altro simile, ma la cui eco fu enormemente maggiore, messo in atto dallo studente Jan Palach a Praga. Salta agli occhi un particolare: la data. L’allora sconosciuto Vasyl’ Makuch agì poco più di due mesi dopo l’ingresso dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia, quando verosimilmente lo studente ceco non aveva ancora nemmeno concepito il suo progetto suicida, e mentre la repressione era ancora in corso. Soltanto i Sette di Mosca, e poi l’altra torcia umana, il polacco Ryszard Siwiec, avevano osato mettersi in gioco prima di lui. Nemmeno sappiamo se Jan Palach nel gennaio del 1969 fosse a conoscenza di quei precedenti, sicché le autoimmolazioni di Siwiec e Makuch gli siano servite da esempio. Siwiec, Makuch, Palach: questa trinità del martirio coscientemente affrontato ci si offre oggi come un simbolo di qualcosa che non è facile mettere a fuoco. Se infatti è comprensibile, entro certi limiti, l’autoimmolazione eroica, capace di scuotere le coscienze, risulta più difficile afferrare le motivazioni del gesto di chi non poteva non prevedere che il suo sacrificio sarebbe stato cancellato da qualsiasi libro di storia, e rimosso dalla coscienza collettiva. A differenza di Siwiec, che nello stadio di Varsavia si impose comunque alla memoria di molti; e a differenza di Jan Palach, destinato alla santificazione postuma, nazionale e religiosa, della Cecoslovacchia e di tutto il mondo, il nome di Makuch sparì negli incartamenti segreti della amministrazione poliziesca sovietica. Il processo che gli venne intentato, a morte avvenuta, si concluse con l’archiviazione di prammatica “per il suo stato di turbamento mentale”.
Non rimane dunque che interpretare ciò che è accaduto come l’affermazione solitaria di un’idea, e di una necessità personale indifferibile. Nella lettera, consegnata da Makuch alla Posta di Kyiv poco prima di darsi fuoco, sono accuratamente spiegate le motivazioni storiche e politiche, moralmente ineccepibili e nella sostanza violentemente accusatorie, verso l’intero sistema sovietico. Il suo dunque non fu un gesto emotivo, disperato, frutto di un momento d’esaltazione autolesionistica. Makuch sentiva di dover agire in quel modo per non tradire se stesso, e non sottrarsi alla necessità di una radicale testimonianza personale.
Oggi, dopo la caduta del regime che aveva osato sfidare da solo, vengono alla luce i documenti che provano il suo coraggio e raccontano ciò che venne rimosso dal regime per decenni. Una busta, i fogli scritti a mano da Makuch in calligrafia ordinata, i rapporti riservati delle autorità su di lui, i timbri postali che provano come tutto sia successo in tempi brevissimi. La lettera fu recapitata probabilmente il giorno stesso al Comitato centrale del Partito, poiché la sede si trovava a poca distanza dall’edificio delle Poste. Ogni frase venne letta, e le più significative sottolineate di suo pugno con una matita rossa, dal presidente Petro Šelest, mentre il rapporto conclusivo seguì di poco la morte. Per questo motivo il titolo di eroe in fiamme spetta, più che a chiunque altro, a lui, Vasyl’ Makuch. L’allora piazza Kalinin, vicino alla quale ebbe luogo il martirio, oggi è Maidan Nezaležnosty, la Piazza dell’Indipendenza.
Che nell’immaginario collettivo della nuova Ucraina, a partire dalle proteste studentesche del 1990, e in seguito alla rivoluzione detta “arancione” del 2004-05, ma soprattutto dopo la rivolta del 2013-14, è sinonimo di spazio di libertà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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