Gli esuli in Sudafrica: la famiglia Haglich

Premesse e promesse attraverso tre secoli tra il Vecchio e il Nuovo continente

Gli esuli in Sudafrica: la famiglia Haglich

Non é semplice tracciare le premesse alle vicende degli Haglich, raccontate a più voci dai nipoti, impegnati a raccogliere recondite pagine sparse del loro passato familiare. Ed é un qualcosa di sorprendente la storia che va a prendere forma, specie se si considera l’epoca in cui incomincia.

Marco Haglich aveva 26 anni, quando nel 1898, con la moglie Natalina di due anni più giovane e la loro primogenita Maria, lasciava la natia Lussino per andare a cercare fortuna negli Stati Uniti. Per quattro anni sarebbero vissuti a Hoboken, cittadina del New Jersey dirimpettaia di New York, dove la coppia avrebbe avuto altri due figli: Maichi e Antonio. Senza ulteriori notizie circa la loro esperienza americana, nel 1902 ritroviamo la famigliola rientrata a Lussinpiccolo. Appreso tuttavia delle possibilità di lavoro esistenti nelle miniere aurifere del Sudafrica, dopo un anno il giovane capofamiglia s’imbarcava come attrezzista di bordo per poter raggiungere il sud del continente nero. Coerente al suo spirito inquieto però, tempo due anni ritornava all’isola natale, allora sotto il dominio austriaco. Dopo il rientro - cadenzato anche dalla nascita degli altri 4 figli Giovanni, Silvia, Milan e Nicolò - apriva un piccolo emporio di generi alimentari, in cui avrebbe operato fino al 1913 quando, venduta l’attività, ripartiva per il Sudafrica. Scoppiata la prima guerra mondiale, il suo stato di suddito austriaco (quindi nemico per gli Inglesi n.d.r.) determinava la sua reclusione nel campo di prigionia sudafricano di Pietermaritzburg. Contemporaneamente in Europa, i figli maschi più grandi erano convocati dall’esercito austriaco, mentre il resto della famiglia abbandonava la carestia di Lussino, dividendosi fra Zagabria e Budapest. Memorabile l’entusiasmo del figlio più piccolo, Nicolò (Nico in famiglia n.d.r.), nel vedere del pane nella vetrina di una panetteria di Budapest. Finita la guerra e passata Lussino all’Italia - con una rinascita del fermento produttivo nei cantieri e opportunità di lavoro per tutti - la riunione della famiglia sull’isola si completava nel 1924, ancora con un ritorno di Marco, dedito stavolta al commercio del legname, tagliato nei boschi di sua proprietà. In questi percorsi di vita tanto movimentati, emerge come uno spaccato di bonaccia domestica, un dolce ricordo di quotidianità: tassativo l’obbligo per i ragazzi Haglich di rientrare per cena ai rintocchi dell’Angelus, Milan spesso rincasava quando la famiglia era già a tavola. Conoscendo a priori la punizione, augurava la buonanotte a tutti e andava a letto senza cena. A mamma Natalina però faceva pena e, addormentatosi il marito, di nascosto portava al figlio in stanza il pasto saltato.

Sembrava dunque raggiunta una certa normalità esistenziale, in cui s’inserivano anche le spensierate uscite di famiglia sull’Alma, barca di 12 metri acquistata da Marco. Era però in agguato la crisi del 29. Ripartito ancora una volta per il Sudafrica - stavolta definitivamente - Marco, dopo aver provveduto con le sue rimesse al sostentamento della famiglia rimasta a Lussino, si faceva raggiungere dalla moglie e dalla figlia maggiore Maria - vedova Picinich - con il figlio Dario: via via sarebbero poi arrivati un po’ tutti i congiunti, ad eccezione di Maichi e Antonio che, naturalizzati americani per la loro nascita negli U.S.A., avevano scelto di trasferirsi oltreatlantico...

Fratelli americani che, in una parentesi della sua adolescenza, il summenzionato vivace Milan aveva raggiunto attraverso avventurose peripezie. Scappato da casa per il suo innato caratterino ribelle, lavorando da mozzo si era pagato la traversata per gli Stati Uniti. Sbarcato clandestino a New Orleans, era stato in seguito ritrovato da Maichi e Antonio – allertati dagli scritti della mamma - in un allevamento di ostriche, dove aveva trovato lavoro e dov’era anche stato colpito dalla malaria, da lui curata con una bottiglia di grappa ed un conseguente sonno di tre settimane. Con i fratelli a New York, ma senza sbocchi lavorativi in quanto privo di regolari documenti di soggiorno, era stato ingaggiato come fattorino per la consegna di generi alimentari. ... ma si trattava di casse di alcolici, si era in epoca di proibizionismo e l’auto usata per la distribuzione apparteneva ad un amico di Al Capone... Dopo un anno di riformatorio - dove però aveva appreso il mestiere di falegname - veniva rimpatriato. Avrebbe raggiunto suo padre in Sud Africa nel 1935, dove la sua esuberante personalità avrebbe ancora trovato conferma negli anni a venire: sorpreso in mare da una burrasca, mentre dalla sua barca pescava senza permesso, per una settimana era stato dato per disperso. Ritrovato a 500 km di distanza nella sua imbarcazione alla deriva, la sua prima risposta alla Guardia Costiera che voleva multarlo, era stata: adesso dormo. Non solo bizzarrie a caratterizzare Milan, dalla mente vivace e creativa: fatta arrivare Maris – la ragazza conosciuta prima di lasciare Lussino, sposata per procura e risposata con rito religioso nel 1938 dopo la riunione in Sudafrica, avrebbe in seguito brevettato con successo uno speciale banco antioscillante e antivibrazioni per la lavorazione dei diamanti, di sua invenzione.

Attraversata la bufera della seconda guerra mondiale, anche la famiglia Haglich si ritrovò fra i 350.000 profughi, in fuga dalle terre che il Trattato di Pace di Parigi aveva sottratto ai Giuliano Dalmati nel 1947, a beneficio della Jugoslavia. A cercare di ricomporre con noi il mosaico di quelle vicissitudini familiari, spesso drammatiche, sono i racconti dei nipoti: Mariella e Paolo - i figli di Nico; Laura e Norbert, i figli di Milan.

Abbiamo capito quanto sofferto sia stato quel distacco per i nostri genitori – racconta Mariella, nata nel 1946 a Lussino – dal fatto che non ne volessero parlare, perché rappresentava qualcosa di troppo doloroso. Ci siamo attivati noi, una volta costituite le nostre famiglie, perché volevamo sapere; ed abbiamo cominciato ad assemblare documenti e foto. Suo padre Nico, diplomatosi maestro, dopo la leva e il servizio prestato in vari ospedali militari - come pure nell’infermeria di campo durante la guerra in Eritrea - nel 1939 si era trovato destinatario di un allontanamento dall’ospedale di Trieste, in quanto di cognome non ritenuto italiano. Immediato il suo sdegno, comunicato via lettera a Mussolini, illustrando impegno e disagi sofferti qualche anno prima per l’esercito italiano, nel deserto africano. A giro di posta veniva disposto il suo reintegro, firmato dal Duce. All’aneddoto prebellico erano seguiti corsi e ricorsi del successivo conflitto mondiale: il disorientamento e le conseguenze dell’8 settembre, la prigionia, la fame. Rientrato a Lussino - dove l’aspettava la moglie Amanda - e incaricato nel dopoguerra dal regime titino di riaprire nell’isola le Scuole Elementari e l’Istituto Nautico, riceveva subito dopo anche l’ordine di eliminare tutti i crocifissi ed i simboli religiosi nell’edificio. L’oppressivo stato di polizia, vigente allora sotto il comunismo jugoslavo, portava la famiglia a scegliere la via dell’esodo. Era il 1948. A documentazione del sofferto cammino verso la libertà, le parole affidate ad un diario da mamma Amanda e ritrovate dalla figlia: Mia piccola Mariella sono stati sei mesi d’intensi cambiamenti e di gran movimento. Abitavamo a Lussinpiccolo nell’isola di Lussino ed appena oggi posso dir chiaro su questo quaderno le sofferenze patite durante questi tre ultimi anni sotto il regime comunista. Dopo un anno di attesa ansiosa e di un intero fascicolo d’incartamenti siamo riusciti ad uscire da quella prigione! Dopo una breve sosta nel campo profughi di Venezia, il 31 luglio salivano sul Toscana – la nave sinonimo dell’esodo – che li avrebbe portati in Sudafrica: Mariella, assieme ai genitori e alla zia Silvia (sorella del papà n.d.r.) con i suoi due figli, Roberto e Piergiorgio. Quest’ultimo contagiato di tifo da una ragazzina inglese imbarcata a Port Said. Giungemmo a destinazione con la bandiera di malattia infettiva a bordo – il ricordo di Mariella – e con un fortissimo temporale. Tranne che per i piccoli ricoverati in quarantena, l’iter successivo si allinea un po’ a quello di tutti i nuovi arrivati di allora: lo sbarco a Durban, il trasferimento a Johannesburg, la sistemazione provvisoria presso i congiunti arrivati precedentemente, l’inserimento non sempre facile in una nuova vita. Ero piccolina e con una coperta usata come oscurante alla finestra, cercavano di farmi dormire in un angolo della stanza, mentre i grandi con i giornali e l’uso di vocabolari si impegnavano ad imparare l’inglese – prosegue Mariella. In seguito, per noi come per ogni nucleo degli zii, ci fu l’acquisto di una casetta, magari da sistemare e poi messa a posto un poco alla volta. Nicolò, già direttore scolastico e falegname per diletto, si ritrovò ad utilizzare il suo hobby come professione in miniera. Causa un incidente nelle gallerie, fece anche passare ore di angoscia ai familiari, senza sue notizie per molte ore. Ritrovato, se la cavò con qualche costola rotta – il racconto della figlia, spiegando che successivamente il papà s’impiegò come magazziniere. L’inserimento scolastico per Mariella come per tutti i fratelli e cugini significò, tra l’altro, l’apprendimento dell’inglese e dell’afrikaans. Fu facile – sorride, canticchiando un valzerino boero, imparato nei primi tempi di scuola, che ancora ricorda. In casa però si è sempre continuato a parlare italiano; in più, al sabato pomeriggio dovevamo prendere due bus per recarci nella scuola dove la Dante Alighieri teneva i corsi d’italiano. Ed è sempre continuata fra noi l’atmosfera lussignana, con cibi e canti della tradizione, specie in occasione delle feste, con le grandi riunioni delle nostre famiglie.

Chi arrivato in tenera età, chi nato in Sudafrica, gli Haglich possono guardare con sodisfazione ai propri percorsi umani e professionali: Laura, con un passato da campionessa di pallacanestro ed ora responsabile di un import di elettrodomestici da incasso, Paolo dirigente della Rank Xerox, Norbert funzionario della Mercedes, Mariella contitolare di un’importante azienda - nel settore del design pubblicitario e dell’assemblaggio del packing - di cui cura la parte amministrativa. Sposata da 45 anni al vicentino Alfredo Cazzavillan, proprietario di un laboratorio tipografico di successo – ricorda ancora con affetto quando – non ancora esistente il banking on line – lei accompagnava papà Nico in centro a pagare le bollette: un rituale, che si concludeva con il cappuccino ed un pezzo di torta nel bar italiano in centro. Ora la sua passione è rivolta all’ecologia ed all’approfondimeno dello studio della savana africana, collaborando come volontaria ai corsi del Bushveld Mosaic: 20-25 persone, ci riuniamo una volta al mese nel corso del week end, si fa lezione all’aperto, un professore tiene lezioni sul clima, sulle origini delle piante, si fanno comparazioni di climi e fotosintesi nelle varie aree, si studiano i metodi applicativi. Si vive in tenda, si fa il braai (barbeque in afrikaan n.d.r.). Una vita tutta al naturale.

Guarda al futuro da lasciare alle prossime generazioni: la nostra storia non è ancora finita. Dove e come sarà il futuro per i nostri figli, o ancor di più per i nostri nipoti?Forse sarà più aperto, senza confini...

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