Guerra, che stava in pace con la vita

Era l’Omero della saggia civiltà contadina: scompare a 92 anni un poeta semplice e profondo. I suoi primi versi nacquero in un campo di prigionia tedesco

Guerra, che stava in pace con la vita

Tonino Guerra deve principalmente la sua popolarità ad altro. Alla sua formidabile attività di sceneggiatore, al personaggio che appare nello spot televisivo a tessere un eloquente e toccante elogio dell’ottimismo vitale. Ma sarebbe davvero ingiusto oggi, al momento della sua scomparsa, non sottolineare che innanzi tutto Tonino Guerra è stato un poeta, un poeta vero, nella vita e nelle opere, quell’Omero della civiltà contadina di cui parlò per prima Elsa Morante, che ha trovato nel dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna il materiale cangiante, aspro e dolcissimo, in cui far emergere la sua visione delle cose, tra grottesco, fiaba e realtà.
Ricorda il poeta che, finito in un campo di prigionia tedesco, durante la Seconda guerra mondiale, alcuni prigionieri romagnoli cominciarono a chiedergli di raccontare qualcosa nel loro dialetto natio. E lui cominciò a raccontare in versi. Così, in questa maniera emblematica, cominciò l’avventura nella poesia di Tonino Guerra, legata all’oralità, alla comunicatività, alla terra di Romagna con i suoi umori forti e sanguigni.
Il primo libro è del 1946, si intitola I scarabócc, e porta una prefazione di Carlo Bo. Il secondo, La s-ciuptéda, è del 1950, e Pasolini lo segnala a Contini in una sua lettera, in cui paragona il suo rapporto col Friuli a quello di Guerra con la Romagna. Questi libri, stampati da piccoli editori locali, confluiscono in I bu, pubblicato da Rizzoli nel 1972. Arrivato alle soglie dei novant’anni, nel 2010 il poeta, che ormai ha lasciato da tempo Roma e il cinema, e vive in campagna con la moglie che viene dalla Russia e che gli ha portato in dono la magia musicale della poesia di quel grande Paese, antologizza tutta la sua opera, versi e prosa, in un volume intitolato La valle del kamasutra. È un volume ampio, reso ancor più prezioso da una sezione intitolata «I segni», dove vengono riprodotti suoi quadri, alcuni di pretta ispirazione orientale.
È stato proprio dopo la lettura di questo libro che ho conosciuto Tonino Guerra, durante l’edizione 2010 del Premio Flaiano. Ricordo un uomo dal volto molto espressivo, energico nonostante l’età, con uno sguardo carico di sorpresa e di ironia. Dovetti parlare poi del suo lavoro sul palco la sera della premiazione. Citai dei suoi versi, ne lessi qualcuno in lingua, e altri provai a leggerli in romagnolo, scusandomi per la mia pronuncia inadeguata. Lo vidi stupito, divertito. Il mio era un omaggio, in verità, perché, sia pure tardi, data la mia estraneità alla poesia dialettale, ho amato davvero la potenza epica e visionaria, popolare e fantastica dei suoi versi. Mi soffermai su un poema intitolato Il miele, del 1981. I suoi «canti» parlano di emigrazione, di ritorno alla terra, di paesaggi contadini, di piogge e nebbie e alberi, mettono in scena personaggi antichi e sapienti, ci mostrano una rosa in un vaso seguita amorosamente nel suo spegnersi, petalo dopo petalo.
Ma il lettore rimarrà, come lo sono stato io, esaltato dal «canto ventiquattresimo» che è la più bella, allegra, autentica lode dell’organo sessuale femminile mai fatta in poesia, con versi tutti sgargianti di metafore potenti, popolane e cosmiche, rabelaisiane nella loro esorbitante terrestrità: «La figa l’è una telaragna/ un pidriùl ad sàida/ é sgarzùl ad tòtt i fiéur». «La fica è una ragnatela/ un imbuto di seta/ il cuore di tutti i fiori».

Se ne va con lui un cantore generoso della vita. Che sapeva, come gli disse il contadino Pinela di cui parla in una sua poesia, che «la morta la n’è méga nuiòusa/ la vén una volta snò». «La morte non è mica noiosa,/ viene una volta sola».

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