Hitler soggiogò le masse con l'estetica

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Adolf Hitler? «Fu sostanzialmente un artista e grazie alla sua natura estetica riuscì a guadagnarsi quei poteri magici con i quali rese prigioniere del suo incantesimo una Germania e un'Europa all'apparenza inermi». Così scriveva nel '38 Thomas Mann ed è questa la tesi, supportata da documenti, fotografie, testimonianze, che regge il corposo Hitler e il potere dell'estetica (Johan&Levi, pagg. 400, euro 33) di Frederic Spotts, docente ad Harvard. Le adunanze, i simboli, i miti, il teatro, l'architettura nazista nascono secondo lo storico dalla viscerale passione di Hitler per ogni forma d'arte e dalla convinzione che la cultura rappresenti lo strumento perfetto per soggiogare le masse. Portato a cogliere il potere evocativo dei simboli (la svastica su tutti), Hitler disegna di proprio pugno la bandiera nazista con i tre colori nero, bianco e rosso, quest'ultimo “scippato” ai sovietici «perché capace di comunicare al popolo un senso di appartenenza». «Il suo virtuoso uso della luce/ non è diverso/ dal suo virtuoso uso del manganello», poetava Bertolt Brecht, e in effetti quella di Hitler è una “teatrocrazia”, con la Germania come palcoscenico.
Un Neoclassicismo rivisitato in chiave teutonica fu la sua personale ricetta architettonica per una nuova Germania dove l'ordine avrebbe domato le ansie dei modernisti, degli espressionisti, degli astrattisti, insomma di tutti gli artisti che sulla tela gettavano dubbi anziché certezze. Nelle adunate è il Führer in persona a pianificare luogo, ora, suoni, scenografia. I gerarchi nazisti sono consci del fatto che il modo migliore per far carriera è saper discettare con il grande capo di arte, musica e teatro. Esprimendo, ovviamente, i pareri “giusti”: Wagner, Canaletto, i «puri tedeschi» come Adolf Ziegler sì, Van Gogh, Picasso, i surrealisti no.
Berlino brucia, il Terzo Reich è ridotto a un bunker e Hitler, che fino all'ultimo vieta agli artisti di regime (ma non ai bambini) di arruolarsi perché li considera troppo preziosi per la creazione della perfetta nazione ariana, parla ai fedelissimi di Schopenhauer e mostra i disegni di Dürer che porta sempre sottobraccio. Nel testamento si preoccupa della Galleria Nazionale di Litz, dove avrebbe voluto esporre la «collezione perfetta», quella adatta a educare il popolo: tanta pittura tedesca, qualche nordico, i vedutisti veneziani, un Leonardo (La dama con l'ermellino). Un patrimonio inestimabile, bottino di guerra delle varie occupazioni, che, ironia della sorte, Hitler non ammirò mai di persona. Spotts, ricordando che al suo saggio, nonostante gli apprezzamenti della comunità ebraica americana, è stata rifiutata la pubblicazione in Germania, precisa: «L'interesse di Hitler per l'arte fu profondo quanto il suo razzismo». Ignorarlo o, peggio, sbeffeggiarlo (un po' come Hitler fece nel '37 con la cosiddetta «arte degenere») non aiuta a comprendere la storia.

L'arma di Stalin fu il terrore, quella di Hitler fu anche la seduzione delle masse: «paradossalmente - conclude Spotts - è stata proprio l'eccezionale importanza della cultura nella vita tedesca a permettere a Hitler una simile libertà d'azione nell'utilizzarla per i suoi scopi».

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