Sta facendo discutere in Francia la pubblicazione del libro «A propos des chefs-d'oevre» (Grasset) di Charles Dantzig scrittore ed editore, che ha deciso di dedicare una riflessione dagli esiti tutt'altro che scontati sul concetto di capolavoro. Tra i bocciati della sua «lista» figurano titoli che mai, fino a oggi, se non per mere ragioni poetiche o ideologiche, sono stati bocciati sonoramente. Scorrendo l'elenco si immagina l'effetto che può avere avuto oltralpe veder respinti senza appello capolavori come «Il Cid» di Pierre Corneille o «Viaggio al termine della notte» di Louis-Ferdinand Céline. Con il suo canone Dantzig sbaraglia quello fin qui tanto in voga di Harold Bloom e spiega: «Per capolavoro letterario intenderei quel libro verso il quale non esistono più obiezioni».
Abbiamo quindi voluto vedere se i nostri giovani scrittori abbiano o meno delle obiezioni da sollevare sui canoni ormai riconosciuti. Abbiamo chiesto quindi agli under 40, che si stanno affacciando adesso nel salotto buono delle patrie lettere, se sono mai stati traditi da un classico; se un capolavoro riconosciuto ha deluso il tempo e la fatica che questi giovani hanno loro concesso, insomma se sono disposti a urlare come il bambino della fiaba di Andersen: «Il re è nudo».
Ad accomunare Gilda Policastro e Francesco Zingoni è, ad esempio, l'insofferenza nei confronti del romanzo più celebrato di Italo Svevo. «Che Zeno non sia propriamente un personaggio simpatico, nella sua formulare inettitudine - spiega la Policastro, autrice de «Il farmaco» (Fandango) -, è un elemento di dissuasione non così frivolo come può sembrare». «Cosa resta oggi de "La coscienza di Zeno" - le fa eco Zingoni, autore di «Forte come l'onda è il mio amore» (Fazi) - se quando lo leggiamo dobbiamo pensarlo come il prequel di Va dove di porta il cuore della Tamaro?».
Restando nell'orticello di casa nostra i giovani scrittori bocciano anche «Il piacere» di D'Annunzio (come fa Giancarlo Liviano autore di «Le ceneri di Mike») e Italo Calvino. «Da qualche tempo faccio un po' di fatica a tirare giù dallo scaffale un libro qualsiasi di Calvino. E la cosa mi dispiace - commenta Alessio Torino, autore di «Tetano» (Minimum Fax) -. Forse è per quel che a me sembra un suo eccesso di fiducia nella razionalità, per il sentore che a volte abbia tenuto fuori dai suoi romanzi una metà della luna, la metà al buio, quella che dà a ogni libro quel senso di vissuto».
Ancor più sonora la bocciatura di Pasolini ad opera di Davide Enia, enfant prodige della scena teatrale e romanziere di culto (pubblicato da Dalai, Sellerio e Fandango). «Lo boccio in toto - spiega l'autore di «Italia-Brasile 3-2» -. I testi teatrali sono adatti solo alla lettura, non alla recitazione. I romanzi non fanno vibrare e le poesie sono una vera delusione. Di lui salvo solo il saggista e il poeta dialettale».
Sul fronte francese se la vedono male il Flaubert di «Madame Bovary» e Guy de Maupassant. Per spiegare il suo rifiuto Mattia Signorini (di cui Marsilio sta per pubblicare il suo nuovo romanzo «Ora») scomoda l'autorità di Fabrizio De Andrè: «Non sono mai riuscito ad appassionarmi alla figura di Emma - spiega Signorini -, alla debolezza arrendevole con cui affronta la vita. Quando penso a lei mi viene in mente una canzone di De André. Diceva: "Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai?"». Nicola Lecca (di cui Mondadori ha appena pubblicato «La piramide del caffè») spiega perché butterebbe nel cestino Una vita di Maupassant. «Al contrario di «Bel Ami« è un romanzo stancante e a tratti anche noioso».
Sui classici americani hanno le idee chiare Federico Baccomo (altro autore Marsilio) e Paolo Di Paolo (di cui Feltrinelli ha pubblicato Dove eravate tutti). Il primo affossa il mito di Franzen. «Delle "Correzioni" - spiega Baccomo - ricordo a memoria una frase, pagina 333, che dice così: "Aveva una faccia grande, con la pelle un po' ruvida, simile a quella del popolare attore italoamericano che una volta aveva impersonato un angelo e un'altra volta un ballerino da discoteca". John Travolta. Semplicemente John Travolta. Ecco, io durante quella faticosissima lettura mi sono spesso trovato a dire: "Sì, ok, ho capito, John Travolta, ti prego, andiamo avanti"». Di Paolo, invece, salva solo «Festa mobile», dell'intera opera di Hemingway («Non l'ho mai trovato trascinante come mi è stato sempre dipinto»). L'ultima bocciatura americana riguarda il Kerouac di «Sulla strada». «Continuo a non trovare niente, nella sua prosa, che mi affascini da lettore - spiega Emiliano Gucci (pubblicato da Guanda e da Feltrinelli) -, tantomeno da scrittore. Mi annoia mortalmente. Forse mi irrita. Anzi tirerei dentro l'intera Beat generation e i suoi presunti miti».
Un altro mito a cadere è quello di Hermann Hesse per mano di Matteo Cellini (esordiente quest'anno con il romanzo «Cate, io:» per Fazi). «"Narciso e Boccadoro" merita biasimo e rampogne - commenta Cellini - nonostante i diffusi ditirambi. Ai giovani piace per la chiarezza manichea del contenuto - semplice, ben individuabile e prêt-à-porter dai loro sogni. Secondo me viene meno a qualsiasi deontologia letteraria: l'artista deve porsi di fronte al mondo e deve guardarlo senza schemi precostituiti. Altrimenti, caro Hesse, si è semplicemente degli illustratori, o dei pubblicitari».
Chiudiamo quest'inchiesta con Gabriele Pedullà che, oltre che critico e italianista già affermato, è anche autore di un sorprendente libro di racconti («Lo spagnolo senza sforzo», Einuadi). «Tutti i tentativi di incontro con Dickens - spiega Pedullà - sono finiti male, la battuta di Nabokov contro Dostojevski scrittore per adolescenti mi pare straordinariamente azzeccata. Ma so che un colpo di fulmine, con loro, un giorno o l'altro potrebbe realizzarsi.
Già, il re è nudo e invecchia pure male.
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