
Li chiamano «pacifisti», ma masticano odio. Di slogan per la pace, ieri, non se ne sono uditi, e bandiere arcobaleno se ne sono viste poche, pochissime.
Si sono viste vetrine rotte, uffici imbrattati, scritte violente contro la presidente del Consiglio: «Spara a Giorgia» recitava lo spray rosso lasciato su un bancomat a metà del corteo di Milano, ufficialmente convocato «per il cessate il fuoco» in Medio oriente, e poi diventato il solito «sfogatoio» di rancori antagonisti.
Le definiscono ancora manifestazioni «Per la Palestina», ma sono solo contro.
Nel corteo - che parte alle 15 dalla Stazione centrale - nessun cartello richiama l'antico mantra dei «due popoli due Stati». «Due popoli, uno Stato». Questa piazza non chiede la pace, invoca la vittoria «dal fiume al mare». Non è una piazza per. Neanche un manifestante, neanche per sbaglio, ricorda o sostiene i giovani palestinesi impegnati nelle proteste contro Hamas. Il settantesimo corteo a Milano in un anno e mezzo - alla faccia della «repressione» - è un corteo «nazionale» convocato dalla galassia delle sigle «pro Pal» e benedetto dall'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche italiane, che partecipa con il presidente Yassine Lafram. Ed è la settantesima manifestazione di fila contro. Contro Israele, contro l'Occidente in generale, e contro il governo italiano ovviamente, colpevole per definizione, di tutto, per il fatto di esistere.
I partecipanti sono circa 10mila, un terzo di quelli attesi, e ci sono anche quelli animati da intenzioni politiche rispettabili, che però finiscono travolte. Il Pd, almeno, ha l'accortezza di girare alla larga, Elly Schlein da qualcuno viene bollata come «complice del genocidio». Alleanza verdi-sinistra invece ha uno striscione e i 5 Stelle partecipano con una piccola delegazione che ammette: «C'è qualche slogan forte, ma sono più forti i missili».
La piazza è un guazzabuglio antagonista in cui sfilano, fianco a fianco, i collettivi femministi e l'imam che si dichiarava contrario alle donne in bicicletta, e poi gli integralisti e i gruppi «Lgbt» - che sotto Hamas durerebbero ben poco - i fedeli barbuti e gli studenti delle tende, che poi alle elezioni universitarie escono sconfitti.
Con lo sguardo morboso dell'ideologia comunista e terzomondista, i vecchi reduci della sinistra estremista vedono nella resistenza palestinese - cioè in Hamas - una lotta rivoluzionaria. «Finché ci sarà un palestinese la resistenza continuerà» gridano al microfono.
Il 7 ottobre con i suoi errori, è rimosso, cancellato, o promosso a «offensiva» legittima, a vittoria. I cori più gettonati invocano l'Intifada, declinata nelle sue forme più minacciose. «Se non cambierà, Intifada pure qua» il coro. E «preparatevi a farla l'intifada!», urla una donna particolarmente agitata. «Abbattere lo Stato sionista», questo l'obiettivo proclamato da uno striscione del Partito comunista dei lavoratori. La «distruzione rivoluzionaria dello Stato di Israele» è ciò che chiede un altro volantino. Spunta uno sparuto gruppo del «soccorso rosso», che inquadra i brigatisti detenuti nelle carceri come eroi, artefici di «importanti azioni di guerriglia».
Con queste promesse, non può essere una sorpresa se dall'odio che si respira nell'aria, qualcuno passi alla violenza di fatto. Lungo il tragitto vengono presi di mira negozi e uffici, danneggiate le sedi di banche e multinazionali. A due terzi del percorso la tensione porta a tafferugli e scontri. Le forze dell'ordine fermano dieci persone, area anarchica.
La premier riceve la solidarietà del presidente del
Senato Ignazio La Russa, di molti ministri, del governatore Attilio Fontana e di tanti altri esponenti del centrodestra. A sinistra nessuno dice nulla, salvo Matteo Renzi e Italia Viva. E l'Ucoii non sente il bisogno di condannare.
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