Libia, 5 ottobre 1960. Da qualche parte oltre le dune, nella terra che una volta fu colonia italiana - e che oggi è campo di battaglia per generali golpisti, tribù berbere, mercenari russi e turchi, forze speciali francesi e servizi segreti italiani - un gruppo di esploratori dell’Eni scorge una gobba di ferraglia che affiora dal mare di sabbia.
Quello che a prima vista sembra essere un vecchio aeroplano argentato si rivelerà un famigerato bombardiere della Regia Aeronautica. Un trimotore per esser precisi: Savoia-Marchetti S.M. 79; nato come bombardiere medio, ma ottimo nel ruolo di aerosilurante; secondo alcuni soprannominato dai piloti britannici il "Gobbo maledetto" per la sua particolare fusoliera, ma più noto per il soprannome di "Sparviero". La livrea mimetica è andata via con il vento e con il tempo. Chi lo ha portato fin lì, invece, è rimasto.
Nella cabina di pilotaggio lo scheletro del comandate siede ancora al suo posto. Un altro corpo scheletrito siede su un seggiolino, appoggiato alla fiancata. Appena sotto l'ala, semi sepolti da vent'anni di tempeste di sabbia, sono i resti di altri due membri dell'equipaggio, che di norma allora contava sei anime. Non ci sono piastrine di riconoscimento, non ci sono oggetti personali che possano essere d'aiuto per identificare nessuno di loro. I predoni del deserto hanno spogliato il relitto di ogni parte utile o riutilizzabile, solo una mitragliatrice è rimasta al proprio posto, sul dorso, dove si accenna la tanto famosa "gobba": puntava al cielo da una piccola eternità. Sarà la matricola del velivolo a svelare almeno in parte quell'enigma: a dire che quello, infatti, era un aerosilurante. Ma perché uno Sparviero che andava a caccia in alto mare era finito nel bel mezzo del deserto?
Un "aerosilurante" nel cuore del deserto
Il codice MM 23881 apparteneva ad uno Sparviero inquadrato nella 278ª Squadriglia Autonoma Aerosiluranti. Quella dei "Quattro gatti", che nello stemma se ne stavano belli in fila su di un grande siluro sospeso tra le nuvole. Una squadriglia che faceva base in Sicilia, ma che aveva velivoli dislocati in diverse basi sparse sulle coste del Mediterraneo. Pronti a colpire dove serviva.
Il nostro era decollato base di Berka, nei sobborghi di Bengasi, il 21 aprile 1941, per colpire un convoglio di navi inglesi. Dopo il presunto attacco (il siluro era stato sganciato), era scomparso senza lasciare traccia. "Comunicato dalla 278^ Squadriglia Aerosiluranti a Ministero Difesa Aeronautica. Comunicasi che giorno 21 aprile at ore 17:25 apparecchio S-79 mm 23881 partito da Berka seguito comando 5^ Squadra Aerea per attacco convoglio scortato segnalato quadratino 5881 precedente rotta Uno-Zero-Cinque velocità otto miglia, non è rientrato.", era stato telegrafato la sera dal comando.
Ma un bombardiere con 6 uomini a bordo - il capitano pilota Oscar Cimolini, il tenente di vascello osservatore Franco Franchi, il maresciallo pilota Cesare Barro, il sergente maggiore marconista Amorino De Luca,e gli avieri Quintilio Bozzelli e Giovanni Romanini - non può scomparire nel nulla. E infatti ricomparve, nelle sue spoglie metalliche e mortali, quando Enrico Mattei si aggiudicò la “Concessione 82”; ossia l'estensione per cercare il petrolio in un'area considerevole che distava ben 500 Km dalla costa, nel mare di sabbia che divide le oasi di Gialo da Giarabub. Si nascondeva lì lo Sparviero scomparso, distante e dimenticato dal mondo. Ma non da chi conosceva e amava quei sei aviatori che mai smisero di pensarli.
Fu quasi per caso poi, che a novanta chilometri da quel relitto, una distanza che poteva essere considerata come almeno cinque giorni di marcia a tappe forzate senza viveri e con pochissima acqua, che vennero trovati i resti di uno quegli avieri sfortunati: Giovanni Romanini, forse l'unico a non aver riportato fratture e ferite nell'impatto con i suolo; e per questo inviato a cercare soccorsi. Crollò stremato a soli 8 chilometri dalla pista che collegava Gialo-Giarabub. Ignorando, per sua disdetta, un deposito d'acqua del Long Range Desert Group: gli incursori inglesi che vivevano come topi del deserto e disseminavano le loro piste di rifornimenti ben nascosti. Uno sforzo disperato e vano che si sarebbe comunque potuto rivelare inutile - è sempre meglio ammarare che cadere nel deserto, dove nessun tipo di aereo può atterrare. E in Libia in quel periodo, con il carburante che scarseggiava, era difficilmente pensare a una spedizione di soccorso che sarebbe arrivata a destinazione, senza incappare nel nemico.
Dispersi in un mare di sabbia
Secondo le ricostruzioni successive (presentate nel libro “L’aereo perduto nel deserto” di Claudio Sommaruga), è possibile, quanto probabile, che il pilota dello Sparviero sia stato dominato dai venti nord-sahariani, che in totale assenza di visibilità devono averlo portato fuori rotta. Nell’oscurità della notte e nella concitazione del momento; senza la traccia del radiofaro di Bengasi e senza radio, la distesa di dune deve essere stata confusa per un mare “immobile”. Così un comandante troppo preoccupato a riportare a casa il suo equipaggio, finito il carburante, smarrita la rotta, e giunto di fronte al tragico epilogo, decise di tentare un atterraggio di fortuna. L'impatto fu violento - considerato lo stato delle eliche e la posizione dei motori, nonché le condizioni carrello che secondo quanto riportato "sfondarono" la superficie "superiore dell'ala”.
Questo spiegherebbe perché il pilota venne lasciato al suo posto (forse per via delle fratture e delle ferite riportate); perché il copilota venne sistemato e ritrovato fuori, ferito anche lui ma liberato dall'abitacolo; e perché gli altri due uomini fossero rimasti lì con loro, per poi morire stremati dal caldo e dalla mancanza d’acqua. Solo due superstiti potevano affrontare una marcia disperata nel deserto, uno di loro non venne mai ritrovato. Il fatto che Romanini avesse due orologi al polso però, suggerisce che sia morto di fatica nel viaggio; e che l'aviere avesse preso in consegna quel ricordo da dare alla famiglia nel caso avesse raggiunto la salvezza. Non ebbe fortuna neanche lui.
Sparò l'unico razzo di segnalazione della sua pistola nell'ultima notte della sua vita, forse al passaggio di un aereo, forse in vista di un lontano convoglio. Così si concluse un'altra sfortunata storia di piloti di guerra.
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