A Istanbul, nazione e religione vogliono ancora dire qualcosa

A Istanbul, nazione e religione vogliono ancora dire qualcosa

Tornare a Istanbul dopo decenni è un crudele esperimento sul tempo che passa. Nel 1989 fu inevitabile approfittare del biglietto dell'interrail, che per un caso fortuito di generosità ferroviaria permetteva di raggiungere la lontana e pericolosa Turchia. Il mio compagno di viaggio, uno studente di medicina conosciuto sui banchi del liceo, agì come un perfetto parafulmine personale. Gli capitò di tutto: un pollice squarciato dal ferro arrugginito di un bagno (ovviamente alla turca) della stazione, l'aggressione di uno sciuscià che dopo avergli impiastricciato di lucido le scarpe da ginnastica intinse le dita nella cromatina, minacciando di macchiargli la polo se non lo avesse retribuito con un compenso esorbitante...

Ventitré anni dopo, visito la città con mia moglie, alla quale non capita niente di sgradevole a parte, un pomeriggio, farsi male urtando gli spigoli del mio carattere. Quanto al biglietto dell'interrail, è stato sostituito dall'automobile, ma soprattutto nel frattempo ho imparato a viaggiare. Ho capito che le città tendono ad essere afone, e che per vederle cantare bisogna sfogliare, se non i cento libri letti da De Amicis prima di imbarcarsi per il Corno d'Oro, almeno qualche polveroso scampolo di biblioteca. Ho dunque percorso le pagine del celebrato Costantinopoli dell'autore di Cuore, e acquistato due opere di Pierre Loti: Aziyadé, storia d'amore impossibile fra un ufficiale della marina inglese e la circassa di un harem; e Costantinopoli nel 1890, spaccato sociale della città sul Bosforo. È facile, oggi, ironizzare su Loti, ma intanto la romantica collina di Eyüp, sulla quale riposa da secoli l'amico fraterno del Profeta, è per tutti anche la «collina Pierre Loti».

Naturalmente mi sono portato dietro anche i romanzi di Orhan Pamuk, che significa cotone; «100% pamuk», garantiscono le etichette delle camicie stipate nel Gran Bazar. Al barbiere con bottega sotto la genovese torre di Galata il nome del Nobel turco genera reazioni contrastanti. È orgoglioso di lui, ma con una specie di compunzione, forse a causa delle censure di Pamuk verso il silenzio ufficiale del regime sul genocidio degli armeni. Infine ho con me una guida d'eccezione redatta da un'attenta giornalista italiana, Adele Cambria. Istanbul. Il doppio viaggio (Donzelli, 231 pagg., 17 euro) permette di districarsi fra i miti che hanno dato origine alla multiforme leggenda della città; ed è la cronaca di un ritorno, perché anche la Cambria è tornata in Turchia dopo una lunga assenza. Una Turchia nel frattempo diventata, a dispetto delle sue contraddizioni e dei suoi scheletri usciti dall'armadio, un modello politico per l'intero Maghreb.

Alcune differenze rispetto al 1989 saltano agli occhi. Santa Sofia non è più la lugubre basilica che con il suo chiazzato bianco e nero sembrava volersi sintonizzare sulle frequenze sinistre di Topkapi, la reggia in cui si stabiliva quali fossero i figli del sultano inadatti al trono e destinati ad essere uccisi. Un po' di colore sugli intonaci, ed ecco Santa Sofia riecheggiare la veneziana San Marco. Delusione, invece, alla Moschea Blu: la Cambria ha ragione, entrarvi non dà più la sensazione di nuotare in una gigantesca lampada d'Aladino. La straordinaria luce blu si è estinta per colpa dei tappeti, che ora sono rosso-mattone. Del Gran Bazar ridotto a centro commerciale non resta nulla, a parte i suggestivi soffitti a volta; più resistente all'occidentalizzazione il Bazar delle spezie, dove si vendono a peso d'oro strani pistilli sferici, ognuno dei quali basta per innumerevoli tazze di tè; nonché migliaia di sanguisughe vive, ritenute una panacea.

Quello che non è cambiato, dai tempi di De Amicis e di Loti, è il fascino che irradiano le abitazioni di legno in stile ottomano, dall'apparenza totalmente scandinava e tali da trasformare le stradine odorose di kebab in un lungomare delle Lofoten. Perché ad Istanbul i punti cardinali si confondono: la Fontana dell'Imperatore, che più turca non si può, è in realtà un dono di Guglielmo II, i mosaici di San Salvatore in Chora rimandano a Ravenna e mezza Costantinopoli è occupata da un quartiere genovese. La logica binaria qui fa cilecca: tutto, più che opporsi a qualcosa d'altro, evoca delle possibili metamorfosi. Così l'immagine più vivida del mio secondo soggiorno costantinopolitano resta quella dello sterminato pic-nic notturno all'Ippodromo.

Guardando questa gente che chiacchiera per ore sotto una falce di luna, sfacciatamente turca e musulmana, si ha l'impressione che la Turchia sia un paese tenuto assieme da due atavismi: l'idea di nazione e la religione.

Ma forse è solo invidia per un popolo vero che nelle sere d'estate si autoconvoca all'aperto, senza che nessuno lo obblighi, per godere il fresco e la compagnia del prossimo. Chissà, fra vent'anni, se un simile spettacolo si verificherà ancora.

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