L'ebbrezza del vivere è in un bicchiere che contiene vino e versi squisiti

Pubblichiamo il contributo di Vittorio Sgarbi al primo numero della rivista Pantagruel, edita da La nave di Teseo. Il volume, di circa mille pagine, è dedicato alla filosofia del cibo e del vino. L'articolo di Vittorio Sgarbi è intitolato "La legge contro la vita"

L'ebbrezza del vivere è in un bicchiere che contiene vino e versi squisiti

Non so quando leggerete queste parole, e io le scrivo nella penombra. Tornerà il sole, ma intanto, per la richiesta di Pantagruel di parlare di qualche aspetto del cibo o del vino, muovendomi fra fame gusto equilibrio ingordigia avidità ebbrezza eccessi, formidabile mi sembra la coincidenza con l'episodio di affermazione di libertà, punita con una bestiale repressione, del signore biellese che aveva comprato soltanto tre bottiglie di vino in un supermercato di Vigliano. L'assurdità è nell'avverbio soltanto. I carabinieri, con la cieca approvazione di un popolo di umiliati e offesi, gli hanno contestato di non avere acquistato sigarette che, favorendo il cancro, sono consentite, ma, in Piemonte, beni superflui, inessenziali: «Non conta l'importo della spesa, si può acquistare anche solo un po' di pane, della carne, o dell'acqua, ma tre bottiglie di vino non possono certo essere considerate una necessità».

Sarebbe bastata una marmellata, una bottiglia d'olio. Acquistare vino comporta una mancanza di rispetto di quanto disposto dal decreto della presidenza del Consiglio dei ministri per fronteggiare l'emergenza Coronavirus. Per di più, spostandosi in bicicletta, invece che in automobile, il colpevole si sarebbe esposto al rischio di incidenti e, quindi, in quel caso, andando ad aumentare il numero di pazienti al pronto soccorso. Ma soprattutto non avrebbe rispettato il principio di spostarsi solo per motivi validi o per necessità: tali non sono state considerate, dai militari, quelle tre bottiglie di vino. Non è bastato che il malcapitato mostrasse, per giustificarsi, anche un pacco di pasta, insufficiente a neutralizzare il vizio del vino. Forse anche a scrivere di questa materia saremo considerati fuori legge, perché cibo e vino, e non pane e acqua, sono ritenuti dal nuovo potere che ci governa beni inessenziali. E andare in bicicletta più pericoloso che andare, anche per strade vuote, in automobile. Strani i carabinieri! Che sembrano usciti da un film come Amici miei dove si gabba il prossimo per puro divertimento. Non c'è ebbrezza, ingordigia, eccessi, fame ma, semplicemente, vita.

Conforto alla scelta del candido bon vivant viene dal grande scrittore Ermanno Cavazzoni, che non si rassegna alla umiliazione e alla paura che ci impongono misure, più che irragionevoli, insensate. Premette: «mi preoccupa la limitazione delle libertà personali. Mi fa molto paura. Soprattutto pensando al dopo. Mi spaventa la grande ubbidienza degli italiani, che dimostra una tendenza a essere gregge. Per carità, non dico che non sia utile per fermare l'epidemia, ma la libertà personale è un bene primario che va difeso fino allo stremo. Per esempio, perché non posso farmi una camminata solitaria in campagna o trasferirmi in una seconda casa isolata dove non ho contatti con nessuno?». Cavazzoni avrebbe guardato con indulgenza e condivisione al ciclista biellese. «Queste sono limitazioni che somigliano ad una carcerazione. Mi chiedo: ma perché uno non può uscire di casa per una passeggiata solitaria senza sfiorare nessuno? Lo dirò fino allo sfinimento, la libertà personale è un bene inestimabile, che va preservato». E conclude: «non puoi uscire da questo mondo, non c'è un monastero, un deserto, un posto della giungla, in cui puoi tagliare i ponti con tutto. Se uno oggi si costruisse una capanna in una remota valle alpina andrebbero subito a controllare se ha i parametri edilizi e se gli scarichi sono a norma. Non esiste nemmeno più l'avventura, perché non c'è più nulla di appartato che non sia sotto controllo».

La vittima di questo incidente stradale, sulla amena strada di Vigliano verso il ricetto di Candelo, ha semplicemente ritenuto di poter continuare a vivere come aveva sempre fatto. Un buon diritto, oggi ricusato. E forse poteva opporre agli squadristi mascherati da carabinieri, che, restando in termini rigorosamente sanitari, studi epidemiologici hanno ampiamente dimostrato che un consumo moderato di vino è associato a una diminuzione dei problemi cardiovascolari, come l'insufficienza cardiaca. Se poi, come io credo, il vino acquistato dal biellese sfortunato era rosso, poteva addurre che il consumo di vino rosso presenta per la salute più benefici rispetto al vino bianco. Esso, in particolare quello piemontese, contiene più polifenoli del bianco, e tali composti sono ritenuti particolarmente protettivi contro i problemi cardiovascolari. Per me, cardiopatico, è essenziale. E infatti, io, emiliano, in clausura, bevo Lambrusco, la cui suprema voluttà è di essere un vino che si può corrompere perfino con l'acqua, o con il ghiaccio, come una qualunque bevanda che non abbia avuto (ah ignari e irriguardosi carabinieri!), come il vino, la consacrazione eucaristica che lo assimila al sangue di Cristo, in un rito liturgico senza metafora. Ai carabinieri anche questo è sfuggito. Nel Lambrusco, poi, e anche nei vini piemontesi, all'insaputa dei carabinieri, è essenziale la componente del resveratrolo, composto chimico presente nel vino rosso, che ha precipue proprietà protettive per il sistema circolatorio e verso gli agenti esterni. Se poi la nostra incolpevole cavia biellese avesse acquistato vino bianco, uno studio del 2007 dimostra che vini bianchi e rossi sono efficaci agenti antibatterici contro alcuni ceppi di Streptococcus. E, se non bastasse, in un articolo del numero di ottobre del 2008 di Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention, prestigiosa rivista scientifica, si conferma che il consumo moderato di vino rosso può diminuire il rischio di cancro al polmone negli uomini. E uomo era il ciclista biellese. Infine, allo studio, vi sono anche gli effetti del vino sul cervello: è stato osservato che il vino prodotto dall'uva Cabernet-Sauvignon riduce il rischio di contrarre il morbo di Alzheimer. E questo basti per condannare l'arbitraria repressione di un buon diritto connesso alla salute.

Ma il vino, nelle società libere, è anche ebbrezza; ed è anche un genere letterario. «Bevitori illustrissimi e infaticabili» chiama Rabelais i suoi lettori. È lui, devoto alla «Diva bottiglia», che è stato riconosciuto come l'autore irriverente di uno sconosciuto Trattato sul buon uso del vino, la cui traduzione in ceco, datata 1662, è stata ritrovata quasi per caso tra gli scaffali della Biblioteca del Museo Nazionale di Praga. L'autore di tale traduzione - un certo Martin Kraus de Krausenthal, funzionario della Cancelleria di Praga e già traduttore di diverse opere dal tedesco - presenta quest'ode epicurea ai piaceri e ai benefici del vino come un'opera «del medico ed eminente studioso Rabelais di Lione», con collegamenti che ben corrispondono alla realtà biografica dello scrittore. Purtroppo l'originale francese non è mai stato ritrovato, impedendoci una sicura attribuzione. Il titolo completo è «Trattato sul buon uso del vino, che deve essere abbondante & continuo, per alleviare l'anima & il corpo & contro tutte le malattie degli organi esterni & interni, composto a uso & profitto dei fratelli della corporazione dei nasi scintillanti dal maestro Alcofribas, coppiere supremo del grande Pantagruele». Il grande Marcel Schwob accompagna l'ouverture di Rabelais: «Bere il vino è, accanto al parlare smodato e alla preghiera ardente, l'attività che distingue l'uomo dagli altri esseri che vivono sulla terra, i volatili, i mammiferi e i rettili, ai quali Dio non ha donato l'anima umana».

È con queste parole che s'apre il delittuoso trattato, scritto «per il profitto generale della corporazione dei bevitori pantagrueliani», ai quali l'autore ricorda l'importanza capitale del vino, le cui molteplici qualità contribuiscono a curare le più svariate malattie del corpo e dello spirito. Ebbrezza e salute. Al contrario, cari carabinieri, «coloro che bevono acqua si trascineranno tutto il dì senza alcun diletto».

Il vino è dominante in Baudelaire che lo descrive in più componimenti dei Fiori del male: «... il vino in mezzo al coro/ dell'umanità frivola fa trascorrere l'oro,/ nella gola dell'uomo le sue avventure canta:/ poiché profonde doni, come un vero regnante./ Per spegner il rancore, cullare l'indolenza,/ di quei vecchi che muoiono, maledetti, in silenzio,/ Dio, pentito, creò il sonno, le sue fole./ L'uomo vi aggiunse il vino, sacro figlio del sole». Fino agli estremi del Vino degli amanti: «Oggi lo spazio è splendido! Senza morsi né speroni o briglie,/ via, sul vino, a cavallo verso un cielo divino e incantato!/ Come due angeli che tortura un rovello implacabile, oh,/ nel cristallo azzurro del mattino,/ mollemente cullati sopra le ali/ di un turbine che sale con sapienza,/ in un delirio che insieme ci assale,/ affiancati in armoniosa alleanza,/ fuggiremo, sorella, senza riposi né tregue,/ verso il paradiso dei miei sogni».

Come spiegarlo a un carabiniere? Ma ancor più: come dire ai fratelli islamici che il loro maggior poeta, Omar Khayyam, è stato in tutta la storia il più grande cantore del vino? Proibito dalla shaaria musulmana, maledetto, eppure da Khayyam esaltato nella sua più alta essenza: «Non c'è nessuno che conosca il segreto del futuro. Quello che vi serve è del vino, dell'amore e del riposo a piacere». Che un poeta inneggi al vino è, dunque, un fatto assolutamente normale nella cultura occidentale, ma se il poeta è musulmano allora diventa una sfida. Eppure, nella poesia mediorientale, molti versi sono dedicati al vino. Già nel secolo XII il poeta sufi Ibn Al-Farid scriveva: «Dicono: hai bevuto il peccato! Nient'affatto, ho bevuto ciò che sarebbe peccato abbandonare! Non vi è vita in questo mondo per chi è sobrio, chi muore senza aver provato l'ebbrezza ha vissuto invano». Questi versi fanno parte del poema Il vino mistico, in quanto, per convenzione, inteso come mezzo che conduce a Dio.

D'altronde è proprio il Corano a offrire differenti interpretazioni circa la liceità del vino quando, al versetto 67 della sura XVI, lo esalta: «E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento», mentre al versetto 219 della 619 La legge contro la vita sura II lo sconsiglia: «Ti domanderanno ancora del vino e del gioco d'azzardo. Rispondi: C'è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambo le cose ma il peccato è più grande del vantaggio». Ma Khayyam insiste: «Bevi vino, ché vita eterna è questa vita mortale, E questo è tutto quel ch'hai della tua giovinezza; Ed or che c'è vino, e fiori ci sono, e amici lieti d'ebbrezza, Sii lieto un istante ora, ché questa, questa è la Vita». Omar Khayyam era nato a Nishapur nel Khorasan (Persia nord-orientale) nel 1048, e morì nel 1132. Oltre che poeta, fu anche astronomo, matematico e filosofo, Le sue quartine sono state introdotte in Europa con le traduzioni dello scrittore inglese Edward Fitzgerald (la prima edizione risale al 1859). Dai Paesi anglosassoni la fama di Khayyam si propagò in tutta Europa e nel mondo. A lui è stata dedicata anche una poco nota poesia di Vincenzo Cardarelli (1887-1959), A Omar Khayyam («Abbiamo dopo di te,/ bevuto in ben altre cantine./ Abbiamo la gola rossa/ dei nostri vini d'Occidente,/ o mio vecchio, melodico persiano»). Per Khayyam il vino non può essere un peccato: gli uomini compiono azioni ben peggiori di quella del bere vino! Il poeta rivela il suo spirito libertario, in disprezzo dei precetti della shaaria, un atteggiamento anarcoide da poeta maledetto. Khayyam entra in polemica con i dottori della legge che considerano illecito sulla terra quello che nell'altro mondo dichiarano lecito («Ci saranno, laggiù, e vino e latte e miele»). Se la prende con gli ipocriti: «Bere vino e corteggiare le belle/ è meglio che fare esercizio di ipocrita ascesi». Talvolta se la prende anche con Dio («Ma sei tu ubriaco, o Signore?»), salvo poi chiedergli scusa.

Nelle quartine di Khayyam c'è uno straordinario equilibrio fra vari elementi: la gioia di vivere, il fatalismo orientale, un pessimismo quasi leopardiano («Beato colui che presto partì via dal mondo, felice quello che mai nel mondo venne»).
Ecco. Ho scritto. Mi fermo.

Si potrà intendere questa mia dissertazione come una perizia a

favore dell'innocuo ciclista biellese, nell'auspicabile processo contro gli ignari carabinieri, che non sanno quello che fanno. Così, con le loro biciclette, andranno verso il ricetto di Candelo a bere buon vino piemontese.

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