"L'infinito" è una sfida al coraggio di vivere

Fuga, intimità, voragini nello spazio e nel tempo. IN questi versi c'è ogni uomo

"L'infinito" è una sfida al coraggio di vivere

Chi ha vissuto tutta la vita in grandi città, che so? Roma o Milano, è abituato a pensare che il mondo cominci e finisca in quel luogo, che quella città che abita basti a far esplodere o, di contro, a ordinare la vita. Se per un viaggio, o un qualsiasi spostamento quella persona si trova a sostare in una qualunque provincia italiana, pur subendone l'immediato fascino, quel fascino che deriva, prima ancora che dai tesori che vi scopre, da una condizione di vita che percepisce tanto distante da parergli addirittura esotica, nel momento in cui pensa veramente a una possibilità di vita lì, proprio in quel luogo, sente uno smarrimento, pone un muro tra sé e una possibilità sia pure solo immaginaria di permanenza.

Poco più di un mese fa, per lavoro sono stato a Recanati e nei suoi dintorni per qualche giorno. I vicoli del paese deserti, le finestre, già nel primissimo pomeriggio, sigillate, un cielo pesantemente grigio sopra i tetti. Sono entrato in Casa Leopardi, e la prima sala mi è sembrata tanto intima che calpestarla mi pareva un atto di violazione. La grossa scrivania di Monaldo schiacciava il piccolo tavolino quadrato che gli stava di fronte. Il tavolino sopra cui i figli studiavano sotto l'occhio attento del padre. Giacomo sedeva, bambino, su una di quelle sedie, leggendo i testi antichi che il padre aveva collezionato - anche indebitandosi - costruendo in poco tempo una delle più belle e importanti biblioteche d'Italia ma che pure aveva avuto la lungimiranza e l'intelligenza di rendere disponibile non solo ai suoi pargoli, compresa Paolina, una delle prime donne italiane a fare dello studio una ragione di vita, ma anche a tutta la popolazione, nobili e contadini.

Eppure, da quelle finestre che affacciano sulla piazzetta, che è stata chiamata come una delle più celebri poesie leopardiane, Sabato del villaggio, e dove si scorgono pure le finestre della casa di fronte, quelle in cui viveva Silvia, entrava poca luce. Un senso come di oppressione sentivo che già mi invadeva, come se l'emozione, certo viva, fosse subito ferita da uno stato d'ansia, da un senso del limite che, dovevo subito ammetterlo, non dipendeva che da me. Come potevano una mente e un'anima come quelle di Giacomo Leopardi, tanto profonde da aprire voragini, resistere in quel deserto di luoghi? Nella sala accanto, dove alle pareti sono appesi tutti i ritratti della famiglia, pure il celebre ritratto di Giacomo che lui detestava (diceva che ritraendolo lo avevano abbellito), in una teca è conservato il manoscritto de L'Infinito, una delle poesie più belle non soltanto di Leopardi, ma della storia dell'umanità. Scopro poi che quel manoscritto non è che una copia realizzata da un bravo amanuense della zona - e un po' ci rimango male. Ma a rileggere oggi quei versi, a duecento anni da quando Giacomo li ha scritti, nel 1819, che è lo stesso anno in cui tenta la fuga da Recanati, una fuga subito stroncata da suo padre, quando aveva appena venti anni, ci si domanda, me lo sono domandato proprio lì, dentro casa sua, dove con tutta probabilità la compose, come sia stato capace di vedere tanto lontano, anzi tanto profondamente la vita. Come sia accaduto che tutta la realtà si sia raccolta in un paese tanto piccolo, si sia aperta in un solo sguardo.

L'ultimo a interrogare (o a farsi interrogare da) L'infinito, tra le poesie più commentate di sempre, è il poeta Davide Rondoni con il libro E come il vento. «L'infinito», lo strano bacio del poeta al mondo (Fazi, pagg. 168, euro 15). Ma Rondoni la interroga nel solo modo che ci sembra possibile, mettendo in discussione la vita, prima di tutto la propria. O meglio, si lascia interrogare dalla poesia attraversando la vita, predisponendosi ad accoglierla. Perché è di un accoglimento che parlano quei versi, e nonostante ci siano locuzioni come «profondissima quiete», la narrazione è quella di uno stravolgimento. Rondoni lo dice chiaramente: «Il luogo che non è altrove dalla poesia può trovarsi ovunque. È il luogo dell'avvenimento del mondo. È lo spazio esteriore e interiore dove si presenta con più evidenza l'avvenimento del mondo, la natura del mondo come evento. Ovvero come ritmo, come imprevisto e come deviazione dalla mia previsione e dal mio calcolo. Insomma, potremmo dire come miracolo».

Sì, ha ragione Rondoni, il mondo avviene quando siamo pronti ad accoglierlo e quindi a viverlo veramente. Ed è un avvenimento che può accadere ovunque. Quello che vuole farci comprendere Rondoni è che quell'accadimento in cui il mondo si svela dentro di noi necessita di una educazione, che è soprattutto una forma di ascolto. «Il reale non è tutto solo misurabile e quindi prevedibile (...). Il luogo che non è altrove dalla poesia e dove è possibile sperimentare l'infinito non è nemmeno uno spazio che sorge in virtù di qualche potere magico dei versi; non è, insomma, successivo allo scrivere del poeta, semmai è presente nella scrittura indecifrabile che è nel mondo». Ma percepiamo davvero in noi questo senso d'infinito, fatto di «sovrumani/ silenzi» e dove pure naufraghiamo, solo nei momenti in cui amiamo veramente e veramente soffriamo; quando, insomma, quello che stiamo provando ci fa superare la mania con cui organizziamo la nostra vita, facendoci entrare in quel luogo infinito che ci si svela come un impossibile possibilità.

Per questo Rondoni può scrivere che questo idillio leopardiano ci accompagnerà sempre e che occorre ripeterlo, essere capaci di farlo accadere ogni giorno della vita. A leggere bene, quindi, L'Infinito non è che l'esperienza - il miracolo vissuto - della realtà.

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