Lizzani, il cinema girato a sinistra

Grande regista, critico e storico. Una figura chiave per capire la generazione che passò dal fascismo al comunismo

Lizzani, il cinema girato a sinistra

Che la vita abbia qualcosa di insondabile e incomprensibile, è dimostrato dalla morte del regista Carlo Lizzani. A chi lo ricorda camminare novantenne, ritto come un fuso, allegro e sorridente, elegante ed educato, risulta incredibile che si sia suicidato.

Carlo Lizzani è stato non solo un grande regista, ma un intellettuale esemplare per capire il transito di una frangia della cultura italiana dal fascismo all'antifascismo. Il giovanissimo Lizzani, nato a Roma nel 1922, si forma negli anni Trenta alla palestra di Cinema, la irriverente rivista diretta dal figlio di Mussolini, Vittorio. Lì conosce Mario Alicata, Pietro Ingrao, Giuseppe De Santis, Luchino Visconti. Collabora con Roma fascista, testata dei giovani universitari, sulle cui pagine scrive anche Eugenio Scalfari. È un giovane fascista. Insofferente perché il cinema italiano ai suoi occhi appare vecchio, troppo letterario o troppo adagiato sulla risata. In particolare se la prende con i «calligrafici», accusati di girare film eleganti ma falsi. Frequenta anche gli ambienti del Centro Sperimentale di Cinematografia. La base sulla quale nel dopoguerra verrà costruita la fortuna internazionale della cinematografia italiana, propagandata dalla figura di Roberto Rossellini. Di Rossellini Lizzani è assistente sul set di Germania anno zero (1948). Miglior maestro non gli poteva toccare.

Intanto Lizzani si avvicina al Partito comunista. Nel cinema si fa le ossa col documentario e debutta dietro la macchina da presa in pieno fervore neorealista con la celebrazione della Resistenza in Achtung! Banditi! (1951). La consacrazione di Lizzani arriva nel 1954 con Cronache di poveri amanti, tratto dall'omonimo romanzo di Vasco Pratolini. Il critico cinematografico più autorevole dell'epoca, il marxista Guido Aristarco, su Cinema nuovo lo colloca sul piedistallo più alto, superiore persino a La strada di Fellini e pari a Senso di Visconti. È un'esagerazione, ma il film è di qualità. Da quel momento Lizzani non si ferma più, dimostrando straordinaria versatilità.

Chi lo riteneva un neorealista è sorpreso da Lo svitato (1956) con Dario Fo e Franca Rame. Poi torna all'impegno con il duro e violento Il gobbo (1960) e subito dopo approda alla commedia de Il carabiniere a cavallo (1961) con Nino Manfredi e Peppino De Filippo. Seguono L'oro di Roma (1961), Il processo di Verona (1963) e soprattutto La vita agra (1964), tratto dallo splendido romanzo di Luciano Bianciardi. Lizzani non manca nemmeno l'appuntamento con lo «spaghetti western»: gira Un fiume di dollari e Requiescant (1966). Negli anni '70 le grandi città conoscono la violenza spettacolare di rapine, assalti a mano armata, scontri ideologici. Lizzani, che all'argomento aveva già dedicato Svegliati e uccidi (1966, sulla vita di Luciano Lutring), realizza tra gli altri Roma bene (1971), Torino nera (1972), Storie di vita e malavita (1975). In mezzo c'è l'opera più complessa e riuscita della sua carriera: Mussolini ultimo atto (1974). La versione dell'esecuzione di Mussolini e Claretta Petacci accreditata dal Partito comunista. Il resto della filmografia di Lizzani annovera ancora lungometraggi, prodotti per la televisione, documentari. Con qualche incomprensione, come i fischi al suo Mamma Ebe (1985) in concorso alla mostra di Venezia.

Lizzani non si è mai fermato. Se n'è andato al lavoro, impegnato nella realizzazione di un film tratto da un testo di Giulio Andreotti, Operazione via Appia. A lui si deve la rinascita della Mostra del cinema di Venezia, dopo la chiusura. Nel 1979 viene nominato direttore (lo resterà fino al 1982). Scrive, riflette sul cinema e sulla vita politica, pubblica un fortunato libro di memorie: Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, 2007). Il suo giudizio sul fascismo era articolato. Lo considerava un movimento di massa reazionario ma modernizzatore. Riconosceva continuità tra gli anni giovanili e quelli della maturità: «La predicazione antiborghese del fascismo ci ha preparato a passare armi e bagagli sul fronte marxista». Del fascismo apprezzava infine l'apertura verso i giovani: «Il Centro sperimentale di cinematografia, un'invenzione fascista, proiettava i film sovietici. Ci sentivamo promossi come nessun'altra generazione prima di noi». Dichiarazioni che suscitarono scalpore.

Carlo Lizzani non ha forse realizzato opere paragonabili a quelle di Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Sergio Leone. Ma è stato un significativo «compagno di viaggio». Le sue competenze tecniche sono fuori discussione. Così come la sua cultura. E anche se ha piegato certe sue interpretazioni del mondo all'ideologia, non l'ha mai fatto superando la misura.

Questa generazione di eccellenti artigiani e di straordinari maestri non ha lasciato allievi. Il Sessantotto, e ciò che ne è seguito, ha tagliato il cordone ombelicale con registi come Lizzani. I risultati si vedono ancora oggi.

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