L'Ungaretti "politico" fu sempre fedele al suo mussolinismo ma non servo del fascismo

La prefazione firmata dal Duce alla sua raccolta "Il porto sepolto" e l'"autocandidatura all'Accademia d'Italia non gli sono stati perdonati nell'arroventato clima del dopoguerra.

L'Ungaretti "politico" fu sempre fedele al suo mussolinismo ma non servo del fascismo

Ardengo Soffici ha raccontato un suo incontro con Giuseppe Ungaretti e Benito Mussolini nell'ufficio di quest'ultimo a Palazzo Chigi. Era l'estate del 1924, alla vigilia del delitto Matteotti. I tre si ritrovarono a parlare di Piero Gobetti, il giovane intellettuale liberale che proprio quell'anno aveva dato alle stampe il libro La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia ed era stato fatto oggetto di aggressioni e perquisizioni domiciliari. Soffici, che pure apparteneva al fascismo «strapaesano» e intransigente, prese le difese di Gobetti mentre il poeta, tra una smorfia e un risolino, se ne uscì con una battuta: «Ma Gobetti è un imbecille». Battuta infelice alla quale Mussolini, stando al racconto di Soffici, replicò dicendo: «Niente affatto. Gobetti non è un imbecille: tutt'altro!».
L'episodio, in sé e per sé, non avrebbe poi grandissima importanza e rimarrebbe nel campo della aneddotica letteraria e dei contrasti fra intellettuali, se non fosse per il fatto che, di lì a poco, il 30 agosto, una quindicina di giorni dopo il ritrovamento del corpo di Matteotti e in piena bagarre contro il governo, Ungaretti decise di iscriversi al Partito nazionale fascista. Una scelta di campo, in quel momento storico, che la dice lunga sulle idee politiche del giovane poeta e lo fa annoverare tra i fascisti della prima ora.
Del resto Mussolini aveva, per così dire, «battezzato» Ungaretti come poeta. Nel 1923 aveva vergato una prefazione alla raccolta di liriche Il porto sepolto, definendole «una testimonianza profonda della poesia fatta di sensibilità, di tormento, di ricerca, di passione e di mistero». A quell'epoca i due non avevano stretti rapporti, ma Ungaretti era stato corrispondente da Parigi per Il Popolo d'Italia durante i lavori della Conferenza di pace e si era poi ritrovato Mussolini, dopo la marcia su Roma, al ministero degli Esteri dov'egli lavorava (per la verità poco e svogliatamente) all'ufficio stampa.
Una conoscenza superficiale, insomma senza particolari occasioni di frequentazione. Il che fa ritenere che la prefazione al libro, sollecitata con una lettera dal poeta, fosse davvero sincera. Anni dopo, conversando con un interlocutore, Mussolini, ormai all'apice della parabola politica, rivendicò senza mezzi termini la sua scoperta letteraria: «Mi glorio di essere il responsabile di due scoperte: Ungaretti e Sironi. Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti rimarrà nella storia della poesia europea. Le opere scavate nella roccia, rilevate dal buio di tempi dimenticati, dovute a Sironi, costituiscono il fondale di poesia della mia rivoluzione». In altra occasione, poi, il duce ebbe a lamentarsi con Marinetti per il fatto che, a quanto gli risultava, Ungaretti non era stato presente al convegno di Bologna del 1925 dal quale sarebbe poi scaturito il manifesto degli intellettuali fascisti. Ma si sbagliava: «Marinetti mi disse che ero in errore. Ungaretti era stato presente in quell'assise bolognese. Ne era stato uno dei protagonisti propugnando la necessità di esportare la cultura del fascismo. Questa pagina dell'attività intellettuale di Ungaretti mi era ignota. Ne presi atto con soddisfazione. Il poeta tornava a me caro quanto caro mi era stato ai giorni in cui m'ero fatto editore e presentatore di Il porto sepolto».
Più volte Ungaretti ebbe occasione di manifestare la sua ammirazione per Mussolini con dediche e articoli elogiativi. E a lui non esitò a rivolgersi, da «devotissimo milite», per autocandidarsi all'Accademia d'Italia. Tuttavia, a sentire Mussolini, a convincerlo a concedere spadino e feluca al poeta non fu l'autocandidatura, ma il «consiglio di Marinetti». I segni di benevolenza da parte di Mussolini, peraltro, non mancarono, al punto che il poeta finì regolarmente sovvenzionato (1.500 lire al mese) dal Minculpop.
Sulla natura del rapporto fra il poeta e il duce c'è una pagina, come sempre, illuminante di Giovanni Ansaldo il quale, nell'ottobre 1932, non ancora divenuto «il giornalista di Ciano», ebbe Ungaretti ospite a colazione. Ungaretti aveva un «viso bruttissimo o sfavillante» con «occhi fauneschi e infantili», differiva «da tutta la schiera dei piccoli letterati lecchini», era «un uomo» con «della ispirazione, del temperamento, della strafottenza e dell'energia», insomma con «un carattere»: «Vede la vita, vede gli uomini, non vede solo i versi, si entusiasma per Mussolini». E ancora: «Quanto alla politica, non sa neppure lui cosa pensi; ammira Mussolini, ma poi, in fondo, è sempre uno sbandato, la sua indipendenza e la sua strafottenza si fanno risentire in tutti i suoi giudizi».
Il ritrattino in punta di penna coglie bene la dimensione «politica» di Ungaretti negli anni del regime. Ne mette in luce il «mussolinismo» più che il «fascismo», ma esagera nell'attribuire al poeta un «carattere». In realtà, Ungaretti, ebbe sempre il complesso di questa ammirazione segreta per il duce, per i suoi trascorsi fascisti, per le sue amicizie d'altri tempi. Un esempio ce lo offre il suo comportamento durante il procedimento di epurazione avviato nei suoi confronti per togliergli la cattedra universitaria assegnatagli per chiara fama, quando egli fece tentativi goffi per separare il proprio nome da quello di Mussolini e dal fascismo. Li stigmatizzò, questi tentativi, una poesiola satirica di Giuseppe Villaroel che gioca, mettendoli in corsivo, su tre testi ungarettiani: «Secondo la famosa procedura, / Ungaretti, chiamato alla Censura, / si sbrigò del processo in un momento. / Avete scritto all'epoca fascista / Sentimento del tempo?/ Il sentimento / è d'ogni tempo disse e non si acquista. / Morto sepolto? Or ch'è sepolto il morto / è bene, amici, che tagliate corto. / Allegria di naufragi? Era allegria; / oggi è naufragio e non più per colpa mia».
Debolezze umane, quelle di Ungaretti, ma comprensibili nell'arroventato clima da resa dei conti dell'immediato dopoguerra. La «prefazione» di Mussolini pesava come un macigno. Meno comprensibili, invece, certi atteggiamenti ungarettiani che contraddicono il ritrattino di uomo coraggioso che ne fece Ansaldo. Nel 1968, per esempio, egli giunse a dire in un contraddittorio, agli studenti che lo contestavano, di non ricordare chi fosse al governo all'inizio degli anni Quaranta o che gli era stata assegnata per chiara fama la cattedra di letteratura italiana. Detto questo va però aggiunto, ad onor del vero, che Ungaretti, nel suo intimo, rimase sempre, sia pure attraverso il velo della nostalgia, un «mussoliniano».

Tant'è che, ancora negli anni Sessanta, scrivendo al suo vecchio amico Jean Paulhan, si lasciò scappare questa battuta: «Ah Mussolini. Certamente l'ho amato tanto». Una voce dal sen fuggita, certo, che getta uno sprazzo di luce sul «mussolinismo», più che sul «fascismo», di tanti intellettuali che si trovarono a vivere e operare durante il regime.

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