Ci vorrebbe un'iniziativa popolare per salvare Mauro Corona, qualcosa che gli faccia abbandonare gli atteggiamenti da predicatore pop che rischiano di farlo somigliare a un Tiziano Terzani in versione local. Corona lo vorremmo più brutto, più sporco e più cattivo. Scultore, alpinista, scrittore di magici «cunti» montanari attaccato alla sua terra, la dura e sfregiata zona del Vajont, sarebbe un perfetto reazionario, un Nicolás Gómez Dávila con, al posto della biblioteca sterminata, un laboratorio pieno di sgorbie, seghe, scalpelli.
E invece, leggendo il suo Confessioni ultime (Chiarelettere, pagg. 114, euro 13,90), ci si trova di fronte a un personaggio vagamente irrisolto. Il genere è quello del libro-testamento che smuove paragoni ingombranti, da Sant'Agostino a Rousseau, ma spinge anche a una totale e brutale sincerità: «se un libro del genere non fosse sincero non varrebbe nulla», scriveva Giacomo Casanova nelle sue Memorie. Anche Corona si vuole dipingere per ciò che è: «Nella mia vita sono stato un uomo arrogante. Per paura. Anche antipatico, orgoglioso, vanitoso»; «Rimango uno spocchioso pieno di me». Un fondo di rabbia e rivalsa per un'infanzia spersa e indigente. Ricordando, Corona rimpiange gli stivali di gomma che venivano regalati ai suoi compagni di scuola e a lui non toccarono mai, ma confessa di non rimpiangere le figure parentali, né madre, né padre. Anzi alla morte di quest'ultimo «ho sentito una liberazione da quegli occhi che non potevi guardare, che non m'hanno mai risposto a una domanda: perché mi legavi a un palo e mi davi le cinghiate? (...) Perché m'hai fracassato la schiena a calci e prendevi il virgulto di nocciolo che essendo flessibile faceva più male?».
Le cose che fanno male, nel caso di Corona, sono servite a tirare in piedi una personalità, anche artistica, non accomodante ma affascinante: uno che, al turista che gli chiede quali sono i migliori ristoranti della zona risponde «stia tre giorni senza mangiare, e dopo mangerà bene dappertutto». Uno che fa l'elogio della timidezza: «chi ce l'ha dovrebbe sentirsi padrone di una fortuna». Uno che confessa di non avere amiche donne. Uno che se la piglia col presidente della Repubblica Napolitano perché non è venuto a rendere omaggio alle vittime del Vajont. Tra l'altro quest'anno ricorre il cinquantenario di quello che Corona definisce «un genocidio», e il Dvd in allegato al libro contiene un documentario sul colpevole disastro del 9 ottobre 1963.
Un no global, non per posa new age ma per incazzatura pratica e territoriale. Uno che cita Ezra Pound («Rendi forti i vecchi sogni perché questo nostro vecchio mondo prenda coraggio») e a volte dorme all'aperto per stare in compagnia delle anime dei morti. Uno che detesta i teologi perché «se cerchi Dio vuol dire che non ci credi» e non si fida dei suoi simili perché, biblicamente: «L'uomo non è buono». Uno infine che in tema di «decrescita» scrive: «se io so farmi il pane sono invincibile. Questa è la soluzione del futuro. Molti rideranno a queste parole e saranno i primi a schiattare. Perché non sanno fare un cazzo in ginocchio sulla terra». E conclude sul nichilismo: «Il principio della fine è questa disgregazione».
Si può essere più o meno d'accordo con i contenuti, ma come una personalità del genere sia finita tra i venerati maestri della medietà alle vongole, elogiato dal perenne quasinobel Claudio Magris è quasi un mistero. Quasi, perché in fondo, anche nel libro, l'incazzatura genuina si stempera qua e là.
In ingenui cortocircuiti grillini («dovremmo tutti fare i Beppe Grillo per ribellarci, indignarci e recuperare qualcosa»), nelle troppe e generiche citazioni da intellettuale, da Wittgenstein a Pessoa a Borges, al buonismo schiodacristi di frasi come: «Il gatto del vicino attraversa il mio cortile e glielo ammazzo: questo è il principio della guerra. Invece che accarezzarlo lo uccido». Fino alla confessione di desiderare il premio Strega. Che fa venire tanta nostalgia di un Corona brutto, sporco e cattivo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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