Da dove nasce l'esigenza della scrittura? Qual è il momento in cui un autore scopre la necessità di fermare le parole sulla carta? E soprattutto quelle parole, che danno forma a sogni, incubi e invenzioni narrative, da dove nascono? Sono le domande da sempre irrisolte. O meglio domande che non possono richiedere una sola risposta. Ognuno porterà il suo originale vissuto per dire come e perché è diventato scrittore. Ogni singolo autore può facilmente spiegare la sua originalità, anche quando il prodotto del suo lavoro porta echi fin troppo ridondanti di altre voci e di altri nomi.
Ben altra urgenza può avere la domanda su come vive uno scrittore. Anche qui - è ovvio - le risposte saranno sempre diverse. È possibile però rintracciare il percorso virtuoso di un autore quando lo stesso sa mettersi in ascolto della realtà in cui viene di volta in volta a trovarsi e soprattutto quando sa cercare l'uomo e la sua umanità non solo sui libri ma anche nelle espressioni del suo volto e nelle cose che sussurra in timide confidenze. E soprattutto quando impronta la sua vita professionale al dialogo con l'altro, che sia scrittore come lui o semplice lettore.
Un esempio interessante della «vita da scrittore» lo offre Mario Fortunato nel suo ultimo libro «Quelli che ami non muoiono» (Bompiani, pp.386, 19,50 euro). Racconto esemplare perché mostra quanta attenzione e passione Fortunato riversa non soltanto nei libri e nei testi ma anche negli autori e, in senso generale, in tutti coloro che hanno scelto la via dell'arte per creare un contatto, per innescare un dialogo. E tra le pieghe del racconto (scritto proprio in forma narrativa e autobiografica e che si legge proprio come un romanzo) c'è spazio anche per sapere molto (non tutto) della vita dello stesso Fortunato.
Il titolo è tratto da una poesia di Iosif Brodskij. Ed è ovvio il legame che Fortunato cerca di conservare al di là del triste dato biografico. Molti dei personaggi di cui parla nel libro se ne sono andati da tempo. Il racconto non intende, ovviamente, celebrarne le virtù letterarie e umane. Semmai il ricordo serve allo stesso Fortunato per modellare una costellazione di riferimento per sé e - almeno questo è il suo augurio - anche per il lettore. Le pagine di «Quelli che ami non muoiono» sono popolate di autentici fuoriclasse della scrittura letteraria che Fortunato (di nome e di fatto) ha avuto la buona sorte di incontrare grazie alla vasta rete di amicizie, grazie al suo lavoro di giornalista culturale («Panorama» ed «Espresso») e grazie anche all'esperienza maturata nelle vesti di direttore dell'Istituto italiano di cultura di Londra dal 2000 al 2004. Esperienza che gli ha permesso altrettanti incontri e non solo. Gli ha dato la possibilità di mettere in pratica una sua «fissazione»: fare incontrare gli autori perché (questa è una delle tesi di fondo del libro) è proprio dal dialogo e dal confronto che possono innescarsi tutti quei corticircuiti che portano il lettore a continuare la sua ricerca ben oltre la pagina scritta e più precisamente negli exempla dell'esperienza altrui.
Il libro si apre con un ricordo di Jorge Luis Borges in occasione di un viaggio a Roma che il noto scrittore argentino fece nell'81 per ritirare il premio Balzan. L'autore di «Finzioni» ormai quasi completamente cieco stupisce Fortunato per la sua puntuale attenzione alle mani dell'interlocutore. E nelle parole riservate proprio all'autore di «Quelli che ami non muoiono» c'è quasi una sorta di vaticinio. Un'epifania evidente che a un quarto di secolo di distanza Fortunato non può fare a meno di notare. Borges intuisce il futuro e il potenziale dello scrittore italiano semplicemente prendendo le mani tra le sue e perlustrandone le fattezze. E dopo Borges arrivano, in ordine sparso, tutti gli attori principali della vita da scrittore di Fortunato. C'è ovviamente Giulio Einaudi (che ritorna più volte nelle pagine del libro, ben oltre il capitolo a lui dedicato), c'è Salman Rushdie che Fortunato incontra a Londra proprio il giorno prima della sua «condanna» da parte degli ayatollah iraniani per la pubblicazione dei «Versetti satanici». C'è Alberto Moravia del quale Fortunato regala un ritratto tanto inedito quanto efficace. I nomi dei protagonisti di questa storia, insomma, sono quelli che riempiono gli scaffali di tutte le librerie ma qui aiutano più che altro a indirizzare il lettore non verso un orizzonte di letture più vasto ma verso un'apertura al dialogo. Ed è così che tutti i personaggi finiscono per regalare al lettore verità finora nascoste ma sempre molto profonde. Mai epigrafe fu quindi più adatta di quella scelta da Fortunato. «Dove c'è molta luce c'è molta ombra» diceva Goethe. E Fortunato tira le somme della sua esperienza di giornalista culturale e di lettore arrivando a sostenere l'esistenza e la necessità di legame tra la vita e la personalità dello scrittore e la sua opera, tra la luce che emana il suo lavoro e l'ombra della sua vita. Anche se il buon senso fa preferire il contatto esclusivo con l'opera per evitare le bizze e le nevrastenie degli autori, Fortunato mostra con la galleria degli autori proposta che è possibile ricostruire legami e complicità con quelle personalità che si sentono affini. Magari il libro può far scattare la scintilla della curiosità, ma è solo l'esperienza diretta (e veramente umanistica) che ci restituisce tutto il valore di un messaggio.
Accanto agli esempi positivi e virtuosi (Tondelli, Natalia Ginzburg, Dario Bellezza, Doris Lessing e Ferlinghetti) ci sono anche quelli negativi (Alain Robbe-Grillet, Agota Kristof e Franco Fortini) che dimostrano come la parola scritta può essere insincera; non sul piano del valore letterario quanto sul fatto che si dovrebbe porre sempre e comunque come specchio dell'autore.
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