Vivere è una cosa complessa. Parola di yeti

"Perché?", si chiedono i bambini che, senza volerlo, fanno filosofia. Una domanda che spesso gli adulti smettono di porsi. Annullando così le proprie esistenze

Vivere è una cosa complessa. Parola di yeti

"La vita (...) ci è data vuota. Lo vogliamo o no, tocca a noi riempirla; vale a dire, dobbiamo occuparla", così scrive Ortega y Gasset. Ogni attimo della nostra esistenza deve essere vissuto; ogni momento della nostra vita merita la nostra ragione. Non esiste un secondo che sia vano, a meno che non decidiamo noi di buttarlo via. La vita, in poche parole, è un cammino vocazionale, necessario, o almeno così dovrebbe essere, a comprendere chi siamo e, di conseguenza, cosa vogliamo.

"Conosci te stesso" era scritto sul tempio di Apollo a Delfi. Una frase che invita chi la legge non solo ad avere una maggior comprensione del proprio essere, ma anche (e soprattutto) dei propri limiti. Chi siamo? Questa domanda, che ci può apparire così banale, è in realtà tremenda. Porsela significa guardare il baratro dell'esistenza umana. Chi siamo? Siamo esseri umani. E poi? Siamo vivi. E poi ancora? Guardiamo ciò che ci sta attorno e ci meravigliamo. Ed è a questo punto che, volenti oppure no, iniziamo a fare filosofia. "Guardandosi intorno, scrive Vittorio Mathieu - egli (l'uomo, ndr) ha l'impressione che non tutto 'vada da sé', e che a fondo dell'esistenza ci sia un problema che metterebbe conto chiarire. Così nasce la 'meraviglia' e, nel tentativo di soddisfarla, la filosofia". Ortega y Gasset, a suo modo, diceva qualcosa di simile: "Sorprendersi, stupirsi, è cominciare a capire. È lo sport e il lusso specifico dell'intellettuale. Per questo il suo atteggiamento distintivo consiste nel guardare il mondo con gli occhi dilatati dallo stupore". È per questo che gli antichi identificarono Minerva, la dea della saggezza, nella civetta, "l'uccello con gli occhi sempre abbagliati", nota il filosofo spagnolo.

Fare filosofia è tipico dei bambini: "Perché?", si chiedono. E non basta loro alcuna risposta, per quanto esaustiva. Torneranno alla carica con un nuovo "perché". È il Cinea che è dentro di noi, e che a volte pare dormire, che continua a porsi questo quesito. Il re Pirro, verso la fine del III secolo, è intenzionato a portare la guerra in Italia. Del resto, Taranto, minacciata dai romani, gli aveva chiesto aiuto. Come dire di no? Le possibilità di vincere erano, almeno sulla carta, alte. Ma Cinea, caro amico del re e suo più fidato ambasciatore, gli pone una domanda terribile: "Perché occupare la Calabria? Cosa farai dopo?". "La Sicilia è vicina all'Italia, disse Pirro, e ritengo che la cavalleria non abbia difficoltà ad occuparla con le armi. Allora Cinea: quando avrai occupato la Sicilia cosa farai dopo? Il re, che non conosceva il pensiero di Cinea disse: 'Ho in mente di andare in Africa, da qui in Spagna e infine nelle altre terre di Europa. Cinea proseguì: cosa farai dopo, o re? Allora alla fine, mio Cinea, disse Pirro, non ci daremo alla dolce tranquillità nell'ozio e nei banchetti con gli amici. 'Allora perché non ci diamo ora alla dolce tranquillità e all'ozio?', chiese Cinea". Perché Pirro vuol fare tutto questo? Per trovare un po' di pace che ha già, senza però vederla. Ha bisogno di un amico, Cinea, per rendersene conto.

Il contrario dei bambini, che vedono ciò che sta loro attorno e si pongono mille e più domande. Come Murdo, nel suo "libro dei sogni impossibili" (Murdo. Il libro dei sogni impossibili, L'Ippocampo).

Murdo. Il libro dei sogni impossibili

C'è chi pensa che gli yeti esistano solamente nelle storie, ma non è così. Murdo è più reale del reale perché è dentro di noi, un po' come il fanciullino di Giovanni Pascoli. Sogna, il piccolo grande yeti, ma soprattutto, ragiona e filosofeggia: "A volte vorremmo essere qualcun altro. E quello che spesso ce lo impedisce è il nostro passato. Perché non si può cambiare il passato. Ho sempre sognato un posto in cui si possano scambiare i ricordi. La memoria sarebbe come un immenso mercatino delle pulci. Riempire il cestino di ricordi che non sono miei. (...) Allora potrei essere qualcun altro, perché non sarei lo stesso da sempre". Quante volte lo abbiamo pensato? Quante volte avremmo voluto mettere le nostre scarpe nella vita di qualcun altro? Quante volte la nostra mente ha corso senza trovare ristoro? Eppure è tutto impossibile: "Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati", ha scritto Oscar Wilde.

E ancora: "A volte non so più chi sono. Me lo dimentico. Ho un buco di memoria. Mi entra in testa una corrente d'aria. Chi sono? mi chiedo. Chi sono? Un viaggiatore che si è perso? Uno struzzo travestito da scimmia? Un marziano in vacanza? Finché incrocio un amico. Ciao Murdo, dice l'amico. E allora riconosco il mio nome, riconosco il mio amico e sorrido. Mi torna la memoria. Sono Murdo! Sono uno yeti!".

Vi ricorda niente? A me l'Accademia - meglio: la palestra - di Platone dove un gruppo di amici si riuniva per discutere (e per lottare). Era lì che, incrociando lo sguardo con un amico, riecheggiava il tuo nome. Il tuo essere. Solo che a volte è necessario tornare bambini per ricordarcelo. O, almeno, leggere Murdo.

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