Mussolini penultimo atto: la guerra civile delle lapidi

L'Anpi oggi collocherà, vicino a quella dei repubblichini, nel luogo in cui il Duce fu ucciso, una scritta che inneggia alla Resistenza

La lapide con le foto del Duce e di Claretta Petacci collocata all'entrata di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra
La lapide con le foto del Duce e di Claretta Petacci collocata all'entrata di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra

«Falso come un'epigrafe» si diceva. E forse non è del tutto vero. Ma un altro motto - «opinabile come un'epigrafe» - si addice perfettamente alla guerra o guerriglia delle lapidi che imperversa tra i cultori della Resistenza e i nostalgici del fascismo. Oggetto della contesa è il modo e il linguaggio con cui deve essere ricordata, a Giulino di Mezzegra nel comasco, la fine di Benito Mussolini. Là fucilato insieme a Claretta Petacci da un commando di giustizieri arrivati da Milano (l'identità dell'esecutore materiale è controversa benché la versione ufficiale del Pci lo abbia identificato nel «colonnello Valerio»).
Quel fatto memorabile aveva trovato ricordo, nella segnaletica del luogo, con un cartello bilingue abbastanza enigmatico. In alto «fatto storico», sotto «site of historical event» e sotto ancora una data «28/4/1945». Troppo poco sia per accontentare chi rimpiange il Duce sia per accontentare chi contro il Duce si scaglia postumamente. La primavera scorsa l'Unione nazionale combattenti della Repubblica sociale italiana era stata autorizzata a collocare accanto al cancello di Villa Belmonte - ossia nel luogo dove il dittatore e l'amante furono abbattuti - una lapide con le foto della coppia. Inde irae dell'Anpi che ha chiesto di poter anch'essa solennizzare, in tutt'altra chiave, l'evento grazie al quale Giulino di Mezzegra è diventato celebre. Oggi i partigiani affiggeranno una lapide così concepita: «Qui, alle 16,10 del 28 aprile 1945 fu eseguita la condanna a morte di Benito Mussolini, decretata dal Clnai. La Resistenza italiana pose così fine alla dittatura fascista».
È inutile pretendere obbiettività storica dall'Anpi, che aureola delle connotazioni d'un mito nobile e glorioso ogni atto o detto resistenziale. Una valutazione più articolata trova ostacoli enormi. Lo si è visto anche in altri conflitti «lapidari». Per la tragedia del ferroviere Pinelli, sèguito agghiacciante della strage di piazza Fontana, gli «studenti democratici milanesi» avevano dedicato una targa in onore di chi era stato «ucciso innocente nei locali della Questura». Per una scritta voluta nel 2006 dal Comune di Milano Pinelli era «morto tragicamente nei locali della Questura». La strage della Stazione di Bologna è commemorata da un cippo che elenca le «vittime del terrorismo fascista», e si è voluto che quella presa di posizione - avallata da una sentenza passata in giudicato - rimanesse dopo che sulle indagini e sul loro esito giudiziario erano state sollevati dubbi consistenti. I revisionisti sono stati sconfitti.
A Giulino di Mezzegra la storia ha sostato, quel 28 aprile del 1945. Ma la lapide che lì troverà posto oggi è secondo me, mi spiace dirlo, una mistificazione. Non sono tra coloro secondo cui l'uccisione di Mussolini - altro discorso per la Petacci - fu un crimine efferato. L'epilogo tumultuoso d'un potere assoluto e d'una guerra civile quasi mai avviene senza spargimento di sangue. Troppi gli odi accumulati, troppe le vendette agognate. Le vite, in quei tormenti, sono come le foglie d'autunno. Gli eccessi anche atroci non sono giustificabili ma sono comprensibili. Ciò che invece, benché comprensibile, non è giustificabile è l'ammantare di legalità un ammazzamento spicciativo, reso urgente non da una qualsiasi minaccia ma dal timore che il prigioniero finisse nelle mani degli angloamericani e da loro fosse poi giudicato magari alla maniera di Norimberga ma con sufficiente correttezza.
Gli alleati vincitori, non la Resistenza, posero fine alla dittatura fascista, e nessuna declamazione stentorea può convincere del contrario. Non ci fu nessun processo per Mussolini, nemmeno un processo farsa come quello che precedette la messa a morte di Ceausescu e di sua moglie. La deliberazione del Clnai - più a posteriori che a priori - non può trasformare in provvedimento legale l'immolazione del potente sconfitto - e della sua donna - per mano di fanatici.

Quella schiuma della terra, a volte anche utile, che in momenti d'emergenza affiora dalle profondità della terra e sfoga le sue pulsioni violente o sanguinarie. Si affermi pure che Mussolini meritava la fine che ha fatto, è una tesi sostenibile con buoni argomenti.
Ma per carità ci si astenga dall'appellarsi a forme regolari di giustizia.

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