Con Pascoli riscopriamo le nostre origini rinnegate

Celebrazioni a un anno dalla morte. Il poeta ci conduce nel "giardino dell’infanzia" dove riemergono i valori che hanno cullato noi e l’intera civiltà del Mediterraneo

Con Pascoli riscopriamo le nostre origini rinnegate

Invitato a un convegno universitario su Giovanni Pascoli, sono caduto dalle nuvole. Il poeta che ho letto da ragazzo e che in questi ultimi anni mi ha accompagnato nei miei vagabondaggi a Barga, mi faceva sorridere come se pronunciando il nome «Pascoli» si evocasse «un nonno», insomma una specie di avo, di famigliare arcaico epperò presente, insostituibile. Si è trattato di un effetto molto curioso. Pascoli, a cento anni dalla morte, era accanto a me alla stregua di un angelo custode. Abitava la mia casa quanto un lare per i latini. Provavo simpatia, affetto per lui. Anzi, Giovanni Pascoli lo amavo senza tuttavia ricordare alcuna poesia, neppure quelle imparate a memoria alle elementari come La cavalla storna, X agosto, oppure la meravigliosa Il gelsomino notturno. Così ho incominciato a interrogarmi: perché lo amo senza saperne il motivo, almeno in apparenza? Perché lo amo liberamente come di solito si ama una donna, un uomo, un amico? Intanto mi accorgevo che anche su altri conoscenti o amici destava lo stesso effetto. Gli interpellati non sapevano spiccicare due idee sul Primo poeta del Novecento, ma ascoltando il suo nome sorridevano. Pronunciare Giovanni Pascoli fomentava una adesione immotivata. Allora per darmi una risposta, e quindi cercare almeno uno straccio di lettura della sua opera che sostenesse il mio intervento universitario, ho proceduto per esclusioni; meglio: ho incominciato a chiedermi perché da sempre amo motivatamente Giacomo Leopardi e Ugo Foscolo; oppure Gabriele D’Annunzio.
Comunque sapere che il poeta di Myricae fosse stato il grande inventore di una lingua nuova, di poesie-macchine di suggestione e sonorità non mi serviva a niente. Né mi aiutava a capire, questo amore irragionevole, l’accertato, documentabile imperio che Pascoli ha avuto su tutta la poesia del Novecento: da D’Annunzio a Ungaretti, da Campana a Montale. Egli infatti non fu soltanto il Primo; la sua apparente semplicità di toni e linguaggi aveva saputo creare metafore tanto complesse quanto aeree e olfattive da spazzare via ogni retorica parnassiana andando a saldarsi alla poesia «pazza» di Arthur Rimbaud. Giovanni Pascoli era arrivato prima delle Avanguardie Storiche (ma era stato dimenticato); e la Neo-Avanguardia degli anni Sessanta, di fronte al pentagramma pascoliano, appariva già un tronco della letteratura, una protesi, una delle tante metastasi ideologiche (siamo nel modernismo e nel modernariato). Ecco, tutto ciò non bastava ancora. Dunque bisognava per forza procedere con Coloro che si amavano sapendo il perché.
Ugo Foscolo era stato «moderno» alla stregua di un corpo atletico e comunque libero di snodarsi all’interno di un sonetto mirabile. Ma lo era stato soprattutto nella sfida agli stranieri che compravano e vendevano la Patria nostra (vedasi il Trattato di Campoformio e l’inevitabile, attualissimo, perché sembra stato scritto in questi giorni, Ultime lettere di Jacopo Ortis). Eppure Foscolo, proprio quando è dentro il delta della Modernità, se ne ritrae come se il Futuro l’avesse già speso tutto; come se oltre non potesse più procedere. E allora ecco che, il modernissimo neoclassicista, si tuffa nel passato, dentro una memoria che salva solo i morti, il loro nome, le gesta; e «l’armonia vince di mille secoli il silenzio».
Giacomo Leopardi sapevamo di amarlo per il suo «femmineo» estremismo contemplativo e consolatorio della Natura, come per l’altrettanto estremistico attacco alla Natura. L’avevamo amato, è ovvio, anche quando costruisce l’equilibrio (poesia dell’immaginazione, dunque antica) delle Operette Morali. E D’Annunzio (quel poeta che scrive da allievo reverente al Maestro Pascoli) ci divertiva così vitale in posa vitalistica, Egli che era partito per forza dal poeta dei Canti di Castelvecchio e da Giovanni Verga, spingendo subito (e forse per sempre) l’inchiostro sul Dna pescarese e abruzzese. Egli si era dovuto mettere «in maschera», ma restava il poeta delle parole, della musicalità se non proprio della musica. Dunque, allora, perché amiamo Pascoli senza ricordare nulla della sua opera?
Giovanni Pascoli costringe letterati, lettori, ignoranti e distratti a tornare a un originario «Giardino dell’Infanzia». Un Giardino-Camposanto al quale siamo tutti legati. Chi per ragioni personali, drammatiche, ma essenzialmente per linee inconsce: infatti si torna in quel «Giardino» perché lì ognuno ha mosso i primi passi con i genitori, la famiglia, la casa, il buio, la luce, gli animali, i colori, gli odori, il cielo, la musica, il silenzio… E siccome del «Giardino dell’Infanzia» il poeta romagnolo è il Padrone, non possiamo che tendergli la mano, uno dietro l’atro in fila.
Epperò il poeta dei Poemi Conviviali non coinvolge solamente gli uomini chiamati in causa singolarmente, Egli in quel «luogo» ci fa ritornare perché la nostra Civiltà è nata nell’infanzia contadina e cristiana. È nata nel segno del culto dei morti. Anzi, tutte le civiltà del bacino del Mediterraneo hanno avuto la medesima infanzia. Quindi andiamo al poeta come il figlio al padre, come il nipote al nonno fino a decrescere nella scala che ci fotografa nella culla. Ma la grandezza sottaciuta di Pascoli è spostare in un altrove (una sorta di super modernità che scavalca il post-moderno e l’oggi) il senso del «Giardino dell’Infanzia». Proprio in un momento epocale dove l’incertezza vince, e il caos dei messaggi è prossimo a un eventuale cortocircuito; proprio ora che lo scambio di merci è talmente veloce da costringerci a precipitare dove non sappiamo, Giovanni Pascoli ci ricorda di essere legati a una zavorra fatta di memorie personali e collettive.

Egli mostra il nostro punto nevralgico (la Patria rimossa) dove risiede «l’inizio», una specie di abbecedario per il futuro che verrà, o al quale possiamo tornare stanchi della babele. Una bussola per mari e oceani in tempesta.

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