"I contro-dazi sono ottusi. Con gli Usa si deve trattare per evitare una crisi globale. Il green deal? Una porcheria. E il riarmo solo sciocchezze"

Il numero uno di Pirelli alla presentazione del settimanale "Moneta": "L'Unione deve fare presto per normalizzare una situazione che non si può sopportare troppo a lungo"

"I contro-dazi sono ottusi. Con gli Usa si deve trattare per evitare una crisi globale. Il green deal? Una porcheria. E il riarmo solo sciocchezze"

Presidente Marco Tronchetti Provera, quando alcuni giorni fa è scoppiata la bomba-dazi gettando il mondo nell'incertezza, lei non ha esitato a metterci la faccia come apripista dicendo: «Signori, qui c'è una sola strada, bisogna trattare». E l'ha detto anche con una certa forza. Perché ha preso subito questa posizione?

«Quando arriva un nuovo presidente, in qualunque Paese, dobbiamo riflettere su come è arrivato. Donald Trump nella sua campagna elettorale ha detto cose nette, promettendo che le avrebbe realizzate. Quindi la nostra classe politica era avvertita, doveva prepararsi a dare delle risposte. Non lo ha fatto, limitandosi a balbettare con una superficialità che lascia allibiti che allora sarebbero stati applicati dei controdazi. Una risposta ottusa».

Perché ottusa?

«Perché hai davanti il presidente degli Stati Uniti, che comunque dispone di tecnologie, armi, satelliti di ultima generazione. Noi europei siamo disarmati di fronte a tanta potenza. Se loro girano una chiave, gli F-35 non decollano; se girano un'altra chiave, qualunque arma moderna non è utilizzabile. Se vogliamo fare ritorsioni contro le loro società di servizi, ricordo che noi tutti siamo legati in un'unica rete con gli Stati Uniti. Non esiste un cloud europeo, non esiste un cloud italiano; c'è una piccola cosa francese di nome Mistral. Quando hai davanti il presidente degli Stati Uniti, non c'è storia, devi trattare, sapendo che c'è un altro giudice che non è a Berlino: il mercato».

Di fronte a un terremoto di tale portata devi però rispondere in qualche modo, dire che ci sei anche tu. Non crede?

«Vero. Ma questi terremoti finanziari Trump li ha provocati con il consenso della gente, della massa popolare che l'ha votato. L'America può essere bella o brutta, ma è una democrazia. Alle elezioni di metà mandato il presidente deve arrivare con dei risultati che gratificano i suoi elettori. Ed è ciò che lui persegue. Se non tratti con uno come Trump, che ha vissuto la vita trattando, allora è il muro contro muro. Ma poichè nessuna guerra dura per sempre, a un certo punto devi sederti al tavolo. Perchè aspettare fino ad allora? Ticosterà sicuramente di più».

Personalmente che cosa pensa dei dazi?

«Ci sono, quindi vanno negoziati. Naturalmente ci auguriamo tutti che in questa fase l'Europa resti unita mentre prova a normalizzare una situazione che non possiamo sostenere a lungo. Guai se si dividesse ora».

Lei dice trattare, ma qui nasce il primo problema. Chi tratta e in nome di chi?

E perché lei subito dopo l'annuncio di Trump, mentre invocava la trattativa, diceva testualmente: «Sono stato un europeista convinto, ma adesso non mi sento più tale fino in fondo.

Questa Unione non ha muscoli e pretende comunque di essere muscolare». Non le sembra una contraddizione?

«No. C'è un'Europa delle origini, c'è l'Europa del Covid e c'è l'Europa di oggi. La prima reazione di Ursula von der Leyen è stata brutale: controdazi subito. Vorrei però che qualcuno mi spiegasse come poi gestiremmo questi controdazi, perché detta così vuol dire solo aumentare l'inflazione ovunque. È questo che vogliamo? Io non credo. Ribadisco: dobbiamo trattare, con i dovuti modi».

Ma che carte abbiamo per trattare senza uscire dal negoziato a pezzi?

Qualcuna c'è. E viene dall'interno degli Stati Uniti. Per esempio il Congresso americano. Perché alla fine chi deciderà se approvare o meno i dazi sarà il Congresso, che può trasformare Trump in un'anatra zoppa in men che non si dica».

Qual è la sua opinione sul ReArm Europe?

«Una parola vuota, perché è un debito aggiuntivo che i Paesi utilizzerebbero in altro modo senza uscire dai parametri di Bruxelles. E vedremmo un solo paese riarmarsi rapidamente: la Germania, pronta a mettere sul tavolo 600 miliardi veri. Ha ragione Roberto Cingolani di Leonardo: prima di parlare di difesa comune, dobbiamo armonizzare i sistemi d'armi».

Effettivamente, con 12 carri armati diversi e nove caccia diversi non andremmo da nessuna parte. Non c'è però una contraddizione con ciò che lei ha più volte ripetuto sulla necessità di sostenere l'Ucraina anche dal punto di vista militare?

«Aiutare l'Ucraina vuol dire fare cose che difendono davvero. Noi siamo entrati nel conflitto spinti dall'amministrazione Biden, perché da soli non abbiamo la possibilità di aiutarli davvero. Se l'America chiude i suoi collegamenti, Putin arriva in tre giorni a Kiev. Diciamolo in modo chiaro: da soli non siamo in grado di difendere l'Ucraina. Se non siamo in grado di essere i motori della trattativa, allora smettiamo di illudere gli ucraini. Dobbiamo certamente stare al loro fianco, ma insieme agli Stati Uniti».

Lei vede un legame tra le decisioni che Trump ha preso in campo economico e quelle che sta prendendo in campo militare?

«Trovare le convergenze in Trump mi pare complicato. Una missione impossibile. Io ci provo, ma la razionalità di Trump è fatta dell'opposto».

Si sostiene che il legame possa essere la Cina.

«Sì, la Cina è il nemico strategico degli Stati Uniti, e i due dovranno individuare un punto di mediazione. Tra loro ci sono in ballo 600 miliardi di import-export, sia pure in un rapporto squilibrato. Poi c'è il tema delle materie prime e soprattutto delle terre rare: ci sono cose su questo fronte che neanche l'America è in grado di fare in modo appropriato. Altro punto sul quale vedo una possibile convergenza. Infine Taiwan, una questione molto complessa perché in quella fascia di Oceani passa il 50% del mercato, dei prodotti verso Est. E dovunque ci siano soldi da guadagnare, l'America si impegna sempre».

C'è poi un signore che si chiama Elon Musk che rappresenta l'economia e la finanza del nuovo millennio e che è entrato prepotentemente nella stanza del potere politico. La preoccupa questa intrusione?

«Musk è un genio, per questo mi preoccupa. Solo Trump può dire basta Elon, fatti da parte per la sicurezza nazionale».

Come imprenditore pensa di prendere in seria considerazione l'invito ad andare a produrre direttamente in America? Sarebbe un modo per risolvere molti problemi...

«Pirelli come gruppo segue da decenni una logica precisa: local for local. Ovvero produciamo nei luoghi in cui vendiamo. Grazie al Nafta, un accordo di libero scambio che univa Messico, Canada e Stati Uniti, abbiamo avviato impianti proprio in Messico. Poi Trump ha sbaraccato tutto. Premetto che il Nord America è un'area dove stiamo andando molto bene, dove è concentrato il 40% del nostro mercato mondiale degli pneumatici di alta gamma e SZsoftware e gli hardware hanno le maggiori possibilità di crescita. Quindi è logico che noi, se necessario, apriremo impianti negli Stati Uniti. Magari non lo faremo domani, ma lo faremo».

Mai come ora lo sviluppo tecnologico si sposa con la sicurezza nazionale. Anche la sua azienda è coinvolta in questo. Nel senso che ormai le tecnologie vanno oltre le bombe. Anzi, le bombe stesse stanno diventando tecnologia oltre che esplosivi. Pensa che il nostro Paese sia sufficientemente tutelato rispetto a un problema di sicurezza nazionale?

«Nessuno in Europa oggi è strutturato per difendere il suo territorio. Senza l'America noi siamo ciechi: lo sono i nostri cellulari, i nostri iPad. Se gli americani chiudono il cloud, è finita. In Europa non c'è niente di simile ad Amazon o a Microsoft. Quindi dobbiamo trovare il modo di superare questo passaggio e dovremmo avere una governance europea che ci permette di farlo».

Non la convince la governance a ventisette in vigore nell'Unione?

«No. Abbiamo subìto il Green Deal: una porcheria terribile. Abbiamo visto le dichiarazioni sul ReArm Europe: sciocchezze. Le garanzie date a Zelensky? False, perché non avevamo gli strumenti. C'è un passaggio obbligato con gli Stati Uniti che, va ricordato sempre, sono una democrazia. Dicevo prima delle elezioni di medio termine: là ogni due anni cambia l'intero Congresso, un terzo del Senato, e poi ogni quattro anni c'è l'elezione del presidente».

Dunque, o gli americani vivono meglio o il presidente è finito nel giro di poche settimane. È così?

«Esattamente. Credo sia possibile, doveroso e razionale andare d'accordo con l'America. L'Occidente siamo noi. E abbiamo delegato all'America la nostra difesa. Con la Germania che si riarma, io preferisco la difesa americana».

Di fronte ai crolli di Borsa di questi giorni, quale consiglio darebbe a un risparmiatore? Perché è vero che ci sono indici che hanno perso il 10-15%, ma è anche vero che negli ultimi due anni avevano guadagnato fino al 60%. Wall Street addirittura il 70%. Che cosa dobbiamo aspettarci ancora?

«L'effetto valanga esiste. Abbiamo vissuto il crac dei subprime e sappiamo com'è finita. Allora furono le grandi istituzioni come JpMorgan e Goldman Sachs a sistemare le cose in pochi mesi. Adesso è più complicato. Ci sono dei grandissimi fondi, ma ci sono sempre più automatismi. Se i crolli superano certe soglie, può arrivare la valanga. La cosa preoccupa anche i banchieri americani: lo stanno dicendo a voce sempre più alta».

Ma che cosa possiamo consigliare a un piccolo investitore?

«Posto che uno confonde i suoi desideri con la realtà, personalmente penso che sia questione di settimane, non di mesi. Entro poche settimane o Trump è diventato un'anatra zoppa per volontà del Congresso oppure gli accordi sono stati raggiunti. La frenata di Musk è del resto un segnale».

Presidente, vorrei chiudere con una domanda fuori sacco su due temi che la riguardano molto da vicino: quando porteremo in Italia l'America's Cup e quando la Ferrari tornerà a essere campione del mondo?

«Mi dia il tempo di chiamare Bertelli e sull'America's Cup le risponderò, ma non sarà una bella risposta. Perché lui usa anche dei metodi diretti per mandare a quel paese. È scaramantico, quindi mi aspetto il peggio».

E la risposta alla seconda domanda?

«Vorrei evitare di rispondere... ma no, ce la faranno. Hanno bravi tecnici, bravi piloti».

E poi hanno il senso degli affari, visti i record di ricavi e di margini che macinano ogni anno.

Mi sono esaltato quando, nell'apprendere l'arrivo dei dazi americani al 20%, la risposta del management è stata: «Benissimo, allora aumentiamo il listino del 20%, non c'è problema».

«Più o meno quello che io tento di dire ai miei...»

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