Un saggio dell'avvocato Jacques Vergès pone l'accento sulla tutela giuridica dell'indagato. Senza, non c'è libertà
Jacques Vergès è noto come l’avvocato del terrore (è il titolo di un film a lui dedicato), come difensore in giudizio del male incarnato – tra gli altri – in Klaus Barbie, criminale nazista, o in Carlos the Jackal (Ilich Ramirez Sanchez), terrorista comunista e poi islamista radicale. L’avocat de la terreur è anche celebre per il mistero che lo circonda, da lui sapientemente amministrato. Per nove anni, questo legale di grido e di buona famiglia borghese, le cui origini asiatico-coloniali sono immerse anch’esse nell’oscurità, scomparve del tutto dalla scena parigina e dal mondo pubblico, in un lungo percorso di privacy molto simile a una clandestinità. Sposò Djamila Boupasha, resistente algerina torturata dai paracadutisti francesi.
Ma la sua vita avventurosa, alla fine, è stata al servizio di una dottrina dreyfusarda classica, ispirata al più ferreo garantismo giuridico e all’avversione pugnace contro l’ingiustizia: accertare la colpevolezza di una persona, anche la più esposta al pregiudizio dell’opinione pubblica per crudeltà dell’immagine o per fragilità della condizione sociale, è un atto di giustizia che richiede mente sgombra, cuore aperto e libero, disponibilità a valutare ogni possibile elemento in ogni possibile direzione, fuori da un partito preso corporativo o di altra natura (religioso, castale). La giustizia che voglia onorare il proprio nome non può dunque che essere figlia, prima di ogni altra cosa, di una riforma morale del cuore e della mente umani: ingombrati, come ciascuno sa, proprio dal partito preso, dall’orgoglio di corpo, e dal multiforme preconcetto nelle sue varianti di conformismo culturale e di obbedienza clericale.
Nel suo esame degli errori giudiziari più noti, e famigerati, una summa di casi storici che Michel Foucault avrebbe chiamato “esperienze limite”, cioè luoghi di elaborazione e sperimentazione di nuova conoscenza, si rende chiaro che per dare soddisfazione a questa sete di vera giustizia non c’è che un modo, e solo uno: il rispetto certosino delle regole del gioco. Nelle fasi decisive in cui si forma la prova – nel dibattimento processuale –, vale a dire la prova esposta alla dialettica delle deduzioni e controdeduzioni, ciò che importa è la limpida imparzialità di chi giudica nel disporre modi e forme di escussione dei testimoni, l’utilizzo degli esperti. E infine la valutazione della cosiddetta regina delle prove, la infida confessione, che con l’annessa chiamata in correità può essere il suggello apparentemente limpido e irrefutabile della peggiore delle ingiustizie...
I due casi giudiziari maggiori dell’Italia contemporanea, o almeno quelli che hanno scatenato passioni civili consapevoli in una direzione o nell’altra, e hanno nutrito vaste campagne mediatiche ancora non esaurite, sono il caso Sofri e il caso Berlusconi, diversi tra loro che più non si potrebbe ma accomunati dal ruolo principe della confessione (il racconto di Leonardo Marino sul delitto Calabresi, e la chiamata in correità per mandato omicida) e delle testimonianze (tutta la vicenda giudiziaria di Berlusconi, sul versante corruzione e su quello mafioso, è attraversata dalla caccia alle deposizioni di pentiti e dall’uso disinvolto di rancori e partito preso di natura personale e politica, accoppiato talvolta con un evidente abuso delle regole del gioco, come nel caso delle intercettazioni). Ma anche nelle faccende di cronaca più discusse e universalmente note – l’infanticidio di Cogne è solo un esempio – si rintracciano elementi decisivi della casistica sull’errore giudiziario analizzata in queste pagine: la televisione, poi, rende cruciale l’uso obliquo degli esperti, che foraggiano dall’esterno il dibattimento con una derrata ingente di opinioni libere spacciate per referti professionali...
La questione dei media la troviamo, rovesciata, già a pagina 29 di questo libretto, a conclusione del racconto riguardante il capitano Alfred Dreyfus. E la trasvalutazione del significato dell’informazione, cent’anni dopo il J’accuse di Émile Zola, è sorprendente.
Ma quanto ai media, ecco che l’appello garantista, il grido d’accusa zoliano in difesa dell’innocente, si trasforma nella sistematica funzione inquisitoria che una stampa cosiddetta di contropotere pretende di esercitare fin dentro la logica dei tribunali.
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