Questa vecchia democrazia o si rinnova o viene travolta

In soggezione di fronte all'economia globalizzata e messa sotto scacco dall'invadenza dei giudici, la politica sta morendo per consunzione

Questa vecchia democrazia o si rinnova o viene travolta

Nelle 110 pagine del suo Morire di democrazia (Longanesi, euro 12,90), Sergio Romano si china sui problemi del mondo, ne offre una diagnosi, abbozza soluzioni. Romano, saggista di lungo corso, riesce benissimo a conciliare la brevità di questo libro con la mole dei problemi che vi vengono presi in considerazione. Servendosi d'un linguaggio essenziale derivato dalla sua esperienza di brillante diplomatico, l'autore sintetizza idee, avvenimenti, personaggi. La prospettiva è planetaria, ma le recenti elezioni politiche italiane le danno una valenza particolare. Lo tsunami del voto ha tolto ogni alibi all'inettitudine dei governi e dei governanti. «È difficile - scrive Romano - che questa vecchia e zoppicante democrazia possa, nelle sue forme attuali, sopravvivere al proprio declino senza rinnovare le sue istituzioni. Così com'è è una democrazia moribonda, fiaccata dal male della corruzione. O si trova un rimedio o le società europee finiranno per soccombere a qualche tentazione demagogica o autoritaria».
Proprio così. La globalizzazione dell'economia e della finanza ha avuto l'effetto di rendere le sovranità nazionali ancora più fragili e precarie. Nell'Unione Europea 27 Paesi sono legati da un patto comune ma «cercano instancabilmente qualche falla del sistema per riappropriarsi del diritto di fare ciò che maggiormente conviene ai loro interessi». In un capitolo di grande acutezza e di grande interesse Romano si occupa dei «signori del denaro», il nuovo ceto sociale composto da persone che non hanno altra cittadinanza fuor che quella del mercato e che «reagiscono con insofferenza e dispetto a qualsiasi tentativo pubblico di regolamentare il loro mestiere». Come conseguenza: i bonus dei banchieri e la creazione di una nuova ricchezza e di una nuova povertà. Dagli usi e dagli abusi di Wall Street e dintorni, Romano passa ai costi della politica, e il materiale non gli manca di sicuro. «La corruzione, la concussione, il traffico d'influenze e la frode - osserva - non sono gli occasionali incidenti di un normale percorso democratico. Sono le necessarie ricadute d'un sistema in cui una targa e un busto marmoreo non bastano più per ricompensare una carriera pubblica».
Le ingiustizie del mondo sono innumerevoli. I popoli vorrebbero, nei loro slanci emotivi, che fossero sanate con interventi dei Paesi che appartengono all'élite delle democrazie. I cittadini esigono un'azione concreta contro dittatori, demagoghi pericolosi, ribelli d'ispirazione talebana. Non ammettono tuttavia che questa meritoria azione metta a rischio la vita dei loro soldati. I quali debbono essere riportati a casa appena possibile. Non si accetta una ripetizione della terribile esperienza vietnamita, quando ogni sera sullo schermo della televisione apparivano le immagini dei body bags, i sacchi scuri di tela cerata in cui erano chiusi i soldati morti nelle ore precedenti. Per mettersi al riparo dalla rabbia della gente gli Usa fanno adesso largo uso dei droni, aerei senza pilota. Che salvaguardano le vite dei «nostri», non quelle dei civili che casualmente si trovino vicino all'obbiettivo. Anche se intenzionati a difendere sempre i diritti umani, gli americani non si azzardano a farlo davvero con la Cina «che ha nelle sue casseforti poco meno di un trilione di buoni del tesoro americani ed è il più promettente mercato mondiale».
E l'Italia? La risposta di Romano non è benevola. Racconta d'uno Stato formalmente unito e d'una nazione disunita. Le leggi italiane non sono mai applicate nello stesso modo al nord e al sud. Come laboratorio politico l'Italia è interessante e inquietante. L'antifascismo vi è maneggiato con disinvoltura. «Esiste nella democrazia italiana - annota Romano - un doppio linguaggio, quello retoricamente e inflessibilmente antifascista dell'Italia ufficiale e quello nostalgico, cinico o moralmente indifferente dell'Italia reale. È fallito il riformismo socialista dopo che il Pci ha preso la guida della sinistra. L'ingresso del potere giudiziario nel sistema politico ha avuto per effetto la morte di due partiti democratici, la Dc e il Psi». E adesso più che mai ha l'effetto di vanificare la normale dialettica delle forze politiche.
All'unità formale della repubblica italiana Romano contrappone l'unità sostanziale della Svizzera dove, nonostante la divisione in 26 cantoni, la società è più solidale, la lotta politica meno rissosa, la battaglia contro la corruzione più efficace, la disuguaglianza fra ricchi e poveri meno scandalosa, il divario tra le cose promesse e quelle mantenute meno largo. La Svizzera, che per secoli ha fornito milizie mercenarie a tutta Europa, è adesso abbarbicata alla propria neutralità.
A questo punto del ragionamento Romano avanza un'ipotesi suggestiva e secondo me di molto difficile realizzazione. L'ipotesi di una neutralità istituzionalmente affermata dell'Europa. Dove il patriottismo si assoggetta spesso e volentieri ai localismi: «Piaccia o no siamo già moralmente e culturalmente neutrali. La neutralità dell'Europa dovrebbe essere interventista, vale a dire assicurare la propria presenza dove occorre promuovere la soluzione di un conflitto». Il che comporterebbe l'eliminazione delle basi militari americane e costringerebbe gli Usa a riflettere sulla loro politica estera «attenuandone i toni imperiali». Le conseguenze dell'idea di Romano sarebbero dunque planetarie ed epocali. È un'idea della quale non so valutare bene i pro e i contro.

Credo di sapere invece che quanto stiamo vedendo attualmente in Europa abbia poco a che vedere con una neutralità che esigerebbe coesione e rinuncia ai nazionalismi miopi. Dei quali vedo una fioritura di cattivo augurio.

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