Renzi, l'ultimo dei velocisti che insegue il sogno futurista

L'ascesa del premier ha profonde radici culturali nelle irrequietezze novecentesche che, come il fascismo, esaltavano il dinamismo. Ma forse ormai è fuori tempo

Renzi, l'ultimo dei velocisti che insegue il sogno futurista

Ma esiste il renzismo? Il fenomeno politico e mediatico di Matteo Renzi nasce da un clima culturale, o come si disse del berlusconismo, da un'egemonia sottoculturale? È presto per dirlo ma il fenomeno Renzi non sembra provenire da alcuna cultura politica o civile; anzi sembra essere il frutto della loro decomposizione. Renzi è la traduzione politica del wireless, mobilità senza fili, senza radici né punti fermi. Ha fondato il suo messaggio politico, ideologico e simbolico sulla mobilità che un tempo si chiamava prassi. Decidere in fretta, mostrarsi rapidi e comunicare veloci, bruciare le tappe e l'inerzia. La velocità di decisione, unita al giovanilismo, è il messaggio energetico del renzismo. Italia, rialzati e cammina è il suo appello etico/epico.

Il culto della velocità è un mito che viene dagli albori del Novecento e odora di futurismo e dei suoi parenti più stretti. Nessuno avrebbe mai pensato allora che il culto euforico della velocità con cui si aprì il '900 sarebbe stato poi maledetto nel giro di un secolo, ponendo alla velocità un guardiano spietato, il Limite, non solo stradale, apprezzando tutto quanto è slow, lento, dal cibo alla musica, fino all'andamento. Velocità come male, lentezza come sicurezza. Il Novecento fu il secolo della velocità, il suo mito l'attraversò come un sorriso, un fulmine, un'ebbrezza e una magìa. Lo slancio epico della velocità era vissuto come una liberazione e un sogno che si realizzava, quasi una divinità discesa in terra di cui si avvertiva la presenza nel vento in faccia. Il culto della velocità percorse le tre grandi rivoluzioni del secolo, il fascismo, il comunismo e l'americanismo o se preferite la rivoluzione nazionalista, la rivoluzione proletaria e la rivoluzione tecnologica. Dal mito fascista della rapidità di gesto e di decisione come segno di modernità efficace e virile al mito comunista della rivoluzione e della dinamo, che dà il nome anche a società sportive dell'est, fino al mito americano della velocità di auto, cibi, trasporti e rapporti: tutto il secolo è un inno al fast, al movimento rapido, l'irrequietezza, il superamento di tempi morti e ataviche lentezze. Li accomuna il futurismo, fiorito tra Milano e Parigi, con sosta artistico-letteraria a Firenze, e poi a Mosca e New York. Il primo movimento globale, non solo per il contagio planetario simultaneo ma anche per la proposta globale e totale, non limitata al regno dell'arte, ma estesa all'architettura, la letteratura, la cucina, il teatro, il cinema, la musica, la tecnologia, la guerra, la politica, la vita e la morte. Una specie di stil novo tecnologico, fondato sul mito della macchina e della velocità, della tecnica e delle sue emozioni; una forma di delirio dionisiaco, non indotto dal vino e da eros ma dall'ebbrezza della velocità, congiunta al mito della macchina che ci mette le ali. Il futurismo diventa il canto della società industriale, l'arte applicata all'epoca del capitalismo, che trova nella civiltà industriale una sua bellezza, essenziale e dinamica. L'elogio della natura cede il posto al mondo modificato dall'uomo. La velocità per Marinetti è la nuova religione della modernità.

La macchina correlata alla velocità delinea anche una nuova grafica e una nuova estetica, nuovi costumi e più slanciati design; anche i corpi tendono a fendere l'aria, a farsi aerodinamici, appuntiti. La magrezza diventa sinonimo di bellezza, la grassezza evoca la lenta goffaggine (Qui Renzi mostra qualche cedimento adiposo...). La velocità delle macchine, a cominciare dalle automobili, è segno di esuberanza e di vitalità, quasi di felicità. Difficile immaginare che nell'epoca seguente, dominata dal traffico, le code, le città intasate e paralizzate, si potesse conservare la stessa fresca e allegra passione per le macchine e la loro velocità. Ma la gerarchia delle automobili, in principio, era sancita dalla loro velocità più che dalla loro sicurezza e comodità. Sull'onda della velocità delle macchine nasce un futurismo pratico di massa. Non c'erano ancora le tragiche controindicazioni della velocità, i bilanci drammatici del fine-settimana e le alterazioni di alcol e droga che mettono ali maligne alla velocità. Era la fase euforica della modernità coi suoi passi celeri.

Il culto della velocità si unì nel Novecento anche al mito della giovinezza. Qui ritroviamo il renzismo e la sua tachicardia anagrafica. Come la velocità e il decisionismo, anche il mito renziano della giovinezza odora di futurismo-fascismo.

Il '900 fu il secolo della giovinezza, l'epoca in cui la condizione giovanile smise di essere l'anticamera impaziente dell'età matura, per farsi protagonista, depositaria della rivoluzione e della novità, quindi della modernità e della velocità. Dalla gioventù ci si attendeva la svolta radicale, il sogno di un futuro migliore e diverso. Agito ergo sum è il nuovo asse cartesiano delle rivoluzioni giovanili e delle accelerazioni inquiete del nostro tempo; la fretta diventa il distintivo della modernità e della capacità di essere al passo dei tempi. Anche il consumismo è fondato proprio sul consumo veloce di merci, mode e miti. La rapidità con cui uomini, situazioni e cose invecchiano, sono superate, non vengono riparate, sono il segno vorace di un'epoca fondata sulla Celerità e il suo rovescio, l'Obsolescenza (da rottamare).

La velocità è un'invocazione spaziale e temporale. Riguarda la capacità di divorare gli spazi, mangiare le distanze e dunque avvicinare popoli e terre distanti. La velocità avvicina il mondo ma allontana le generazioni, perché i vecchi sono sempre più condannati a essere sorpassati e alla fine emarginati da una società giovanilista e velocista. È un'epoca faustiana fondata sul mito del non fermarsi e sul primato dell'azione sulla contemplazione. In principio era l'azione e non più il Verbo, scrive Goethe. Cambiare il mondo e non limitarsi a conoscerlo, dicono in modi diversi i profeti della modernità, da Marx a Nietzsche, da Bergson a James. Un'arte come il cinema, che evoca già nel suo etimo la velocità, pone le immagini in movimento. Il fotogramma infonde velocità al ritratto e trasforma i monumenti in movimenti. I mezzi si fanno veloci, in cielo, in terra, in mare e perfino sott'acqua: come i sommergibili - canta un celebre inno - rapidi e invisibili. Il culto della velocità si applica pure ai contesti industriali e alle catene di montaggio, il paesaggio muta in un'officina ansimante. La scultura futurista riesce a rendere con materiali come il marmo e la pietra l'idea della velocità: si pensi alle opere di Boccioni dove la velocità è scolpita, e l'immobilità stessa diventa una metafora del dinamismo. Poi il culto della velocità si fece Maniera, così come il futurismo si fece rococò ed entrò perfino nelle detestate accademie. Si può azzardare un'archeologia della velocità, qualcosa che evoca la Vittoria di Samotracia esaltata da Marinetti (ma superata dall'auto). Insomma, anche la velocità finì in museo, imbalsamata come una tentazione ardita del passato. Restò la velocità dei rapporti telematici, che si fece simultaneità; ma si perse il mito. Alla fine pure sulla velocità si posò la polvere.

Poi venne Matteo e l'utopia del velocismo riprese a correre... Ma si può fare di un mezzo, di un timer e di una modalità, uno scopo, un valore e una cultura? La rapidità passerà rapidamente, senza lasciare tracce rilevanti?

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