Un conoscente, in vena cinica, disse, dopo aver dato un occhio al cadavere e sogghignato sui presenti, «d'altronde, si è scavato la fossa da solo». Nel ritratto firmato da Boris Kustodiev ha il doppio petto, le mani eleganti giocano con una sigaretta, il viso reca un sorriso cupo, violento, che non ha paura di nulla. Evgenij Zamjatin morì il 10 marzo del 1937, d'infarto: aveva 53 anni, il cielo era, secondo il canone, grigio, simile a un pugno. «Molto ho visto... si è chiuso un cerchio. Ancora non so, non vedo quali curve si profilino nella mia vita», aveva scritto in un abbozzo autobiografico, nel 1928. La vita l'aveva portato a Parigi, tra i russi emigrati, antibolscevichi, solitamente ricchi, eleganti, rappresentati dall'eccentrica Zinaida Gippius e da Ivan Bunin, scrittore eccelso, tolstojano, adatto, che nel 1933 era stato insignito del Nobel per la letteratura. Zamjatin, che aveva creduto nell'euforia della Rivoluzione, non stava bene in quel giro. Se li inimicò tutti, scrisse qualche sceneggiatura per Jean Renoir, morì povero di tutto. Fu sepolto nel cimitero di Thiais, fuori Parigi, dove sarebbero stati sepolti anche Joseph Roth e Paul Celan: la tomba è semplice, cruda, al funerale parteciparono rari conoscenti. Zamjatin finì per azzerarsi.
Nel 1931 era arrivato a Parigi tramite le buone relazioni di Maksim Gor'kij. «Il giorno era straordinariamente caldo e un temporale tropicale aveva scassato Mosca», ricorda Zamjatin, «quando la segretaria di Gor'kij annunciò che mi si voleva a cena». La cena era una specie di raduno di letterati, una festa, nella villa in campagna di Gor'kij. Il vino illuminava la conversazione. Zamjatin era considerato un reietto dall'Unione degli scrittori sovietici da cui si era felicemente licenziato , una specie di sovversivo dai politici. Incurante del disastro, nel 1924 aveva fatto in modo che il suo romanzo proibito, Noi, attraversasse il confine, fosse tradotto, venisse pubblicato a New York, da E.P. Dutton. Come si sa, il libro inscena gli esiti di un regime totalitario, secondo l'epica statale sovietica e l'etica del lavoro taylorista. Zamjatin era stato tra le barricate bolsceviche nel 1905; credeva che la Rivoluzione fosse, soprattutto, una rivoluzione spirituale, estetica, che i veri rivoluzionari avessero l'onere di criticare la deriva autoritaria del Politburo. Si stava scavando la fossa, appunto. Peccava di logica, di buon senso, di lucidità o meglio: di comicità.
Nel 1919 Lenin aveva varato le Edizioni di Stato, Gosizdat, che sostituirono le case editrici private, con funzioni per lo più censorie. Nel 1921 Zamjatin firmò un articolo, Ho paura, in cui riassume lo stato dell'arte nell'era dell'arte di Stato: «Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici». Una frase da stampare sui muri dei palazzi di governo. Dieci anni dopo scrive a Stalin di poter lasciare l'Unione Sovietica, «qui la mia posizione è disperata, la condanna a morte grava su di me, nella mia patria, in quanto scrittore». Nella fatidica cena in villa, Gor'kij si avvicinò a Zamjatin dicendogli che «la faccenda del passaporto è risolta»; gli chiese di ritornare sulle sue posizioni. Zamjatin preferì non abboccare. «Era appena terminato il temporale. Gor'kij si accigliò, tornò dagli altri ospiti. Più tardi, me ne stavo andando, mi domandò quando ci saremmo rivisti, in Italia, forse?, vieni a trovarmi, ti prego». Non si videro mai più: Gor'kij, «il fondatore del realismo socialista, l'iniziatore della letteratura sovietica» (così nelle antologie scolastiche russe), morì, in situazioni mai chiarite, un anno prima di Zamjatin.
Ingegnere navale, Zamjatin, nel 1915, andò a lavorare a Glasgow, Newcastle, Sunderland, «costruivo rompighiaccio». I tedeschi sganciavano bombe dagli zeppelin e allo scrittore l'Occidente parve «tutto nuovo e tutto strano». Zamjatin resta, sempre, straordinariamente russo: rientrò in patria per gustarsi la Rivoluzione, «nel settembre del 1917, su un vecchio piroscafuccio inglese... a fari spenti, con addosso le cinture di salvataggio, le scialuppe pronte», certo che «se non fossi vissuto insieme alla Russia, non sarei più stato in grado di scrivere».
I Racconti di Zamjatin (Mondadori, pagg. 324, euro 14), raccolti a cura di Alessandro Niero, già traduttore di Noi e di un altro splendido ribelle, Boris Pasternak , quasi una primizia (i Racconti inglesi sono editi da Voland nel 1999; alcuni testi, Nella vecchia Russia, X e La caverna, sono usciti per Urban Apnea nel 2019), testimoniano il genio caustico, scorbutico, espressionista dello scrittore che un po' da tutti era ritenuto una specie di Gogol' redivivo. La scrittura sconcerta per eccessi (questo è l'incipit de La iolla: «Le nubi, addensatesi per due settimane, si squarciarono all'improvviso, come accoltellate, e dallo strappo, stendendosi per numerosi ariny e saeni, sgusciò l'azzurro»), ha livore e gioia; la critica politica è ovunque. Zamjatin non sopporta l'istituzione, la clausura burocratica, la botanica dei delatori, il sacerdozio delle norme: lo Stato non include, occlude con la sua perversa pervasività; tutto ciò che limita l'esplosione anarchica della fantasia uccide, è coercitivo, un veleno. Da Parigi vide il deperimento della Rivoluzione in marchingegno del terrore: si fece livido, solo. Morì tra la morte di Vladimir Majakovskij, che si spara un giorno di aprile del 1930 sigillando la fine di ogni pia utopia comunista, e quella di Vladislav Chodasevic, il poeta, passato a Parigi, pure lui, nel 1925, malato, morto di stenti, nel 1939, gran maestro di Nabokov, che nel suo capolavoro tombale, Necropoli, ricorda «le misure inibitorie contro la libera creazione artistica» subite da Zamjatin.
Noi diventò il libro di culto degli anticomunisti e degli occidentali liberi: vi si ispirarono George Orwell, Aldous Huxley, Kurt Vonnegut; Tom Wolfe, nell'oceanica intervista rilasciata alla Paris Review nel 1991, dichiara di aver iniziato a scrivere imitando Zamjatin, su cui si era laureato. Tutto bello. In un saggio del 1923 Zamjatin scrive che «Gli eretici sono l'unico rimedio contro l'entropia del pensiero... Il dogma, nella scienza, nella religione, nella vita sociale, nell'arte, è l'entropia del pensiero. Il dogma non brucia; è glaciale. Al posto del Discorso della Montagna, infuocato, assistiamo alla preghiera sonnolenta magnificata nelle chiese; invece di Galileo ci sono calcoli in stanze ben attrezzate, epigoni che costruiscono le proprie strutture e le proprie carriere intorno all'intuizione di un genio... Il dogma accusa la letteratura eretica: afferma che essa è dannosa.
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