"Scrivo con i nervi a pezzi e parlo a un fantasma"

Durante la stesura di "Un uomo", il romanzo atto d'amore per Panagulis, l'autrice visse una profonda crisi. Ecco perché

"Scrivo con i nervi a pezzi e parlo a un fantasma"

Per gentile concessione dell'editore De Piante, da Si dà il caso invece che io sia davvero uno scrittore pubblichiamo una delle tre lettere inedite di Oriana Fallaci indirizzate a Sergio Pautasso, direttore editoriale della Rizzoli, durante la lavorazione del romanzo Un uomo, negli anni '70. Il libro rievoca la figura di Alekos Panagulis, intellettuale e politico rivoluzionario durante la dittatura dei colonnelli greci. Panagulis fu compagno della Fallaci dal 1973 al '76, anno in cui morì in un misterioso incidente stradale.

Caro Sergio,
stamani mi sono svegliata con una girandola di pensieri in testa e avrei voluto parlarti con calma. Mi ha dato come un'angoscia vederti scappare via. Sento dunque il bisogno di scriverti ciò che ti avrei detto se avessimo avuto ancora mezza giornata a disposizione:

1) Ti ho sentito, stavolta, più perplesso. Come più scontento. Quasi che le centoventi pagine lette ieri ti fossero piaciute meno o qualcosa del genere: ebbene, lo zio Bruno (Bruno Fallaci, famoso giornalista, ndr) diceva che le cose in fieri non dovrebbero mai essere mostrate. E aveva ragione. «A te io leggo via via solo perché mi sei compagno in questa impresa e un compagno molto indispensabile. Ho bisogno di un interlocutore, di un consigliere, quando scrivo. È una mia debolezza. Prima avevo lo zio Bruno. Poi avevo Alekos». La prefazione di Intervista con la Storia la discussi molto con Alekos. E non sai quanto abbia discusso con lui Lettera a un Bambino Mai Nato. Non ho mai nascosto che molte battute fossero sue. Non solo quella che chiude il libro.

Il tuo ruolo qui, è diverso. È quello di una radio di bordo per tenere la rotta. Ma è un ruolo terribile perché, se la radio tace, il navigatore solitario rischia di perdersi. E se la radio è scontenta del navigatore, altrettanto. In altre parole, tu non devi allarmarti per i miei errori di rotta o le mie incompletezze o incertezze nel pilotare la barca, soprattutto quando il mare si mette in tempesta.

Tu sai meglio di me che questo libro è una delle cose più difficili cui uno scrittore potesse accingersi. Lo è non solo per la complessità del personaggio che racconto ma perché questo personaggio non lo guardo con distacco, è la creatura che ho amato di più nella mia vita e che è morta appena quattro mesi fa. Lo è per il conflitto che nasce tra fantasia e realtà, bisogno di inventare e dovere di rispettare la verità, scelta tra ciò che posso e non posso dire. Ho spesso le mani legate dal timore di fargli torto, allo stesso tempo dal timore di abbandonarmi a un'agiografia. E tali scogli superano di gran lunga gli scogli tecnici.

2) Questa impasse psicologica nella quale mi trovo non ha radici solo nella stanchezza fisica che mi ha travolta: scrivere senza sosta per mesi, col dolore addosso, a volte le crisi di lacrime, e l'occhio all'orologio per fare presto, è cosa inumana. Distruggerebbe chiunque. Tantomeno, tale impasse dipende da una mancanza di ispirazione bensì, come ti ho detto mentre l'auto si metteva in moto al cancello, mancanza di informazione. Cioè, paura di tradire Alekos. Io so di poter fare una cosa molto bella, non solo importante, non solo intelligente. Lo so. Le ragioni per cui non ho mai scritto nulla di veramente bello, a parte Lettera a un bambino mai nato che è discreta, sono che non ho mai potuto dedicarmi in pace alla stesura di un libro. Ho sempre pubblicato libri scribacchiandoli tra viaggi ed articoli. Solo per la Lettera mi presi un po' di tempo e il risultato fu subito buono, ma per scrivere una cosa bella, devo aver tempo. E devo essere incoraggiata sempre, mai impaurita. Tu, senza volerlo, senza saperlo stavolta mi hai un pochino impaurita. Non hai detto nulla, no, ma ho avvertito il profumo di un malcontento. Forse mi sbaglio, forse sono così inquieta che vedo fantasmi. E così ti sbalordisco a fare una simile osservazione. Ma, io ecco, io ho bisogno di credere che ciò che sto scrivendo è già bello: anche se ancora non lo è. Sennò vengo colta dal panico.

Il panico mi coglie facilmente perché ho i nervi a pezzi. Per tutte le cose che sai: quasi a pari merito, il dolore e la mia situazione familiare. Da tre mesi e mezzo sono ferma a questo tavolino, quassù in cima a un monte, senza dialogare con nessuno fuorché con me stessa e il fantasma di un morto: così vivo in ogni oggetto e in sortilegi che non sempre riesco ad attribuire al caso o alla fantasia. Pensa a quella diabolica pianta di basilico che ha messo le radici e ti ha fatto rabbrividire. Vi sono notti in cui impazzisco a guardarla e vivo nel terrore che muoia. A tal punto ho i nervi a pezzi. Tu in questi mesi sei stato il mio solo interlocutore con scappate eroiche da parte tua e generosissime, ma per me troppo brevi. E la concentrazione solitaria va bene ma, portata all'eccesso, si trasforma in aridità. Mi sono accorta che dopo aver parlato con qualcuno mi rimetto al lavoro più speditamente, con più idee e più coraggio.

3) Ora di cosa ho bisogno da te a parte l'aiuto che mi hai dato e mi dai, cioè quello dell'amico letterato e del complice? Ho bisogno che tu mi tolga l'assillo del tempo nei riguardi della Rizzoli.

È questo il terzo motivo della mia angoscia. Io ho chiesto qualche mese. Ma sappiamo bene io e te che in sei mesi posso, al massimo, e continuando di questo ritmo, concludere una prima stesura su cui poi lavorare. E quindi, verso maggio o prima, io risolverò il mio problema salariale con la Rizzoli e il mio rapporto con L'Europeo. Poi Angelo (Rizzoli, ndr) crede che torni subito a fare del giornalismo. E devo farglielo credere. Ma non sarà così, o sul momento non credo. E ciò che mi preoccupa non è tanto un problema di stipendi ma di appoggio alla casa editrice attraverso il mio ufficio di New York e di Roma con relative segretarie. Sono, quelli, punti di appoggio indispensabili anche al lavoro del libro. Se taglio quei ponti col mondo, mi trovo come un marinaio che ha la radio di bordo ma non la bussola. Ho bisogno di quei due uffici, di quelle che in americano si chiamano facilities.

Ebbene: i Rizzoli non amano la letteratura. Si sa. Non ne hanno rispetto alcuno, non gliene importa niente. Amano i giornali e basta, poi il cinema. Angelo non ha capito nulla di questo libro e non tanto perché gli ho accuratamente taciuto di cosa si tratta, gli ho parlato di un romanzo e basta, quanto perché vi ha visto un altro bestseller e basta. Lui non intuisce nemmeno che non si scrive un libro buono con l'idea di fare un best-seller. Anzi quando si scrive con l'idea di fare un best-seller, il risultato può solo essere cattivo. Bisogna che questi editori, quindi, comprendano di trovarsi dinanzi a un caso del tutto eccezionale, e che non mi tolgano le facilities delle quali dispongo, cui sono abituata, che mi sono oggi più necessarie di sempre. Ma come, se capiscono solo un linguaggio gretto, economico?

Chiaro: usando il loro linguaggio. Ed ecco ciò che ti chiedo. Ti chiedo di fare il politico, se vuoi un po' il bugiardo. Ti chiedo di fare un po' di recita. Ti chiedo di vedere subito Angelo, o anche gli altri editori, vedi tu, con udienza urgente e drammatica. E poi dirgli che hai letto i nuovi capitoli, fino a 210 pagine, e di essere traboccante di entusiasmo, oh! ah! uh!, e anche preoccupato. Perché hai scoperto che non solo questo meravigliosissimo libro è un libro, è anche un film. Oddio che film, che film.

E per nessuna ragione al mondo bisogna perderci questo libro e questo film, che sciagura sarebbe, che disastro mioddio, e tu hai tanta paura ma tanta che io mi senta incompresa e per dispetto me ne vada e dia il libro a qualcun altro.

Oriana Fallaci

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