Lo stato dell'arte di oggi? Lo spiegò Guttuso 50 anni fa

Negli articoli del maestro siciliano il ritratto del conformismo intellettuale: schierarsi per convenienza, l'avversione verso il figurativo, l'ottusa esterofilia

Lo stato dell'arte di oggi? Lo spiegò Guttuso 50 anni fa

Sembra tutto cambiato, da quando Renato Guttuso scriveva sulle riviste dell'Italia fascista. Il pittore siciliano esordì come critico d'arte a soli diciassette anni, l'età in cui oggi l'aspirante artista pubblica al massimo le foto dei propri gatti su Facebook. E non fu un compitino, ma un testo già adulto, quello sul futurista Pippo Rizzo. Durante il ventennio il giovane Guttuso collaborò a testate importanti come Primato, creatura del ministro Bottai, con interventi di rilievo svolti con un'incredibile sicurezza di sé che lo portava a polemizzare anche con amici e maestri. Senza pagare l'immodestia con la terra bruciata, come accadrebbe ora nel mondo permaloso e mafioso dell'arte, anzi crescendo sempre più nella considerazione generale.
Negli articoli raccolti da Bompiani in questo piccolo monumento (quasi duemila pagine, euro 50) intitolato semplicemente Scritti stupisce il livello di un dibattito culturale che adesso ce lo possiamo sognare, e la grande libertà di giudizio. Ma non erano i tempi del feroce regime? Probabilmente negli Anni Trenta bastava dichiararsi fascisti così come negli anni Cinquanta bastava dichiararsi comunisti, e poi si poteva dire e fare ciò che si voleva. Certo, il pedaggio dell'adulazione era pesante: «La nostra gioia più forte è l'accorgerci ogni istante di andare con Mussolini troppo d'accordo», affermava Guttuso nel 1934. Mentre in seguito, mutando colore ma non atteggiamento, scriveva con mille riverenze «il compagno Tortorella» (responsabile cultura del Pci di Berlinguer), «il compagno Sciaurov» (chi era costui?), «il compagno Napolitano» (questo invece mi sembra di conoscerlo)... Con la scaltrezza dell'artista di successo omaggiava la tirannia del momento per garantirsi la libertà. Negli anni plumbei del togliattismo, Guttuso riuscì a dribblare il realismo socialista di derivazione sovietica con argomentazioni capziose, ciò nonostante efficaci. E così a Mosca poteva prendere il Premio Lenin e a Roma le contesse, partecipare in Polonia ai congressi comunisti e in Italia alla vita mondana. Non sono così duttili, così furbini e nemmeno così alfabeti i pittori odierni, pertanto di loro resteranno bellissimi quadri ma non una riga (fra mezzo secolo, sono facile profeta, nessuna Bompiani raccoglierà le loro mail, i loro post, i loro tweet in un'antologia).

E invece, a osservare bene, non è cambiato quasi niente. Tanto per cominciare le relazioni contano sempre molto, e l'artista schivo che vive ritirato oggi come allora può attaccarsi al tram. I partiti contano meno, indiscutibilmente, ma la collocazione a sinistra giova sempre. Se nel dopoguerra fosse rimasto fascista, Guttuso avrebbe faticato a diventare consigliere comunale mentre l'indefettibile ortodossia comunista gli garantì uno scranno di senatore che aggiunse prestigio al prestigio e certo non gli abbassò le quotazioni. Anche negli anni Settanta non era salutare mostrarsi conservatori, tantomeno reazionari. In occasione di un «ritorno alla pittura» (costante della scena artistica italiana, dove ogni decennio la pittura ritorna perché nessuno presta attenzione al fatto che non se n'è mai andata) un paio di critici dallo zelante conformismo progressista accusarono il genere figurativo di essere, in quanto tale, di destra. Guttuso sulle pagine dell'Espresso reagì come un leone per difendere la propria storia e l'autonomia dell'arte: «Dipingere col pennello figure umane non è, di per sé, né regressivo né progressivo».

Passano i decenni e non cambia nemmeno la Biennale: nel 1953 il principe dei pittori italiani si lamenta del poco spazio riservato agli artisti italiani ed è un articolo che poteva uscire tal quale nel 2003 o a inizio 2013. E considerata la perenne esterofilia delle istituzioni preposte sono certo che potrebbe essere pubblicato, con minime variazioni, nel 2023. Senza tempo anche la ragionevole proposta di sopprimere le province, inutili fin dall'epoca in cui Berta filava, e una denuncia della cementificazione selvaggia della Sicilia che potrebbe apparire domani sul medesimo giornale, il Corriere della sera, magari a firma di Gian Antonio Stella. Più che Guttuso, nelle pagine della terza parte del libro, intitolata «Impegno civile e difesa del patrimonio artistico», sembra di sentir parlare l'Ecclesiaste: «Nihil sub sole novi». Leggendo gli articoli contro i prestiti di quadri delicati e statue inestimabili mi sono dovuto stropicciare gli occhi e controllare la firma: sembrano scritti da Tomaso Montanari, lo storico dell'arte antirenziano che però al tempo in cui si cominciava a discutere della trasportabilità dei Bronzi di Riace era poco più che un bambino.

Mi stropiccio anche il cervello e così mi sovviene che negli anni della giusta indignazione guttusiana per lo sfacelo di paesaggi e musei non c'era nemmeno Berlusconi, tantomeno quel suo ministro Bondi che a un certo punto sembrò il colpevole di ogni crollo, di ogni mercimonio, di ogni insensibilità. Senza volerlo Guttuso ci ricorda che l'aggressione al patrimonio artistico italiano è storia vecchia almeno quanto la repubblica italiana.

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