Lo Stato? Ostacola l'evoluzione della specie

Il saggio di Matt Ridley: "Le origini della virtù". La cooperazione per il proprio e l'altrui vantaggio è connaturata agli uomini

Lo Stato? Ostacola l'evoluzione della specie

«Se vogliamo recuperare l'armonia sociale della virtù, se vogliamo riportare nella società le virtù che l'hanno fatta funzionare bene a nostro vantaggio, dobbiamo assolutamente ridurre il potere e la dimensione dello Stato». Così Matt Ridley, scienziato sociale di fama internazionale, chiude il suo libro Le origini della virtù. Gli istinti umani e l'evoluzione della cooperazione (edito dall'Istituto Bruno Leoni, pagg. 330, euro 20). La tesi è semplice: la società umana funziona meglio, sprigionando una moralità superiore, se viene liberata il più possibile dal peso dello Stato, specialmente da quel tipo di Stato che decide, come scrive Ridley, ogni dettaglio della vita dei cittadini per attaccarsi «come una gigantesca pulce nella schiena della nazione». Bisogna liberarsi il più possibile da questa tutela artificiale, partendo dalla constatazione che gli esseri umani possiedono una naturale e istintiva socievolezza che li porta a cooperare senza bisogno di tanti intermediari politici.

Ridley porta così a logica conclusione uno dei grandi presupposti del libertarismo anarco-capitalista secondo cui è possibile pensare un ordine politico e sociale in cui gli individui siano mossi da interessi personali, concepiti, però, allo stesso tempo, in termini comunitari: ogni membro del gruppo ottiene un risultato migliore se persegue il proprio vantaggio individuale, come ciascun individuo trae maggiore beneficio dal fatto che tutti i membri del gruppo assecondino l'interesse generale. Di qui un libero processo, continuo ed espansivo, di combinazioni e mutamenti. È una concezione ottimistica, che non è assolutamente in contrasto con il senso comune della realtà.

Ne consegue una società nella quale, come direbbe il grande economista liberale Friedrich von Hayek, non vi è un regime programmato per il perseguimento di determinati obiettivi, vale a dire una telecrazia, bensì una nomocrazia, cioè un ordine spontaneo privo di propri scopi, capace, però, di consentire il libero perseguimento di più fini da parte di più soggetti. Ridley fa notare, sempre sulla scorta del pensiero di von Hayek, che buona parte delle strutture sociali sono state il risultato di un processo di evoluzione che nessuno aveva previsto o progettato. Perciò una vera scienza sociale deve sopprimere ogni configurazione predeterminata della società in termini economico-sociali e, più in generale, qualsiasi sua configurazione «futuristica» perché solo la pratica della libertà fa crescere la moralità e l'efficienza del genere umano.

Siamo all'opposto di ogni concezione politica di sinistra, incapace di pensare la società se non in termini di pianificazione e regolamentazione; lacci che comportano, inevitabilmente, la presenza sempre più estesa e soffocante del potere statale. Va sottolineato che l'assunto di fondo che motiva le argomentazioni di Ridley non è di tipo filosofico o politico, ma di tipo naturalistico, come mettono bene in luce, nella loro prefazione al volume, Gustavo Cevolani e Roberto Festa.

Ridley porta a un grado molto elevato la discussione scientifica sulle origini della cooperazione umana, dimostrando che la libera reciprocità si fonda su obiettive basi genetiche. È questa logica evoluzionistica che ha permesso lo sviluppo del genere umano, qualora si consideri che 10mila anni fa vivevano sulla Terra 10 milioni di persone, mentre oggi siamo oltre 6 miliardi.

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