Trafitti dalla spada dei fratelli Nadi

Con stile personale e profondità psicologica, Geminello Alvi narra l’epopea di Aldo e Nedo, fra i più grandi schermitori di ogni tempo

Sono uno di quanti considerano I tre moschettieri di Dumas uno dei libri più affascinanti della letteratura mondiale. E dunque, fatte le dovute proporzioni, per simpatia all’argomento mi sono subito dedicato alla lettura del romanzo La vanità della spada (Mondadori, pagg. 177, euro 17,50) di Geminello Alvi, economista più volte pubblicato da Adelphi, e scrittore esuberante ed estroso.
A parte alcune bizzarrie, che a volte possono significare un’eccessiva disinvoltura nelle scelte lessicali, non sono stato deluso e, al contrario, mi sono sentito gratificato dal ritmo della narrazione, dalla intensa espressività dello stile, e dalla suggestione della vicenda di cui, insieme a un gran numero di personaggi perfettamente caratterizzati, sono protagonisti i due fratelli Nedo e Aldo Nadi, i più famosi e forse i più grandi schermitori di ogni tempo. Il pregio maggiore di questa narrazione è l’equilibrio fra l’oggettiva drammaticità degli eventi e la personale capacità dell’autore di raccontarli con uno spirito molto vicino a un humour che li trasforma nei brevi capitoli di una affabulazione persino divertente. Perfettamente riuscita la contrapposizione dei caratteri dei due fratelli, il maggiore, Nedo, serio, religiosissimo, tutto compreso della nobiltà e imbattibilità della sua arte, e il più giovane Aldo, altrettanto orgoglioso del proprio prestigio di maestro delle tre armi (il fioretto, la spada, la sciabola), più volte campione olimpico e vincitore di campionati mondiali, ma libertino, vanaglorioso, a volte arrogante, altre volte soggetto a crisi di sconforto, ma anche a un pericoloso delirio di onnipotenza: è insomma Aldo a diventare il protagonista di questa storia, che è tuttavia folta di comprimari descritti con icastica penetrazione psicologica.
Qualche esempio: il grande Louis Jouvet, direttore della Comédie Française, distaccato e con le labbra sempre atteggiate in una sprezzante piega di amarezza; e l’altrettanto grande regista Jean Renoir, al contrario ridanciano, ma anche iracondo nei rapporti umani; e l’eccelso maestro di scherma Pini, amico del padre dei due Nadi, l’irascibile Beppe, il cui mestiere di sergente dei pompieri non gli aveva impedito di diventare anch’egli schermitore di fama europea, e severissimo educatore e istruttore dei suoi figli, nonché gestore di una rinomata palestra per aspiranti spadaccini; e nella fumosa bisca livornese, detta Cubino, dove si riunivano anche numerosi studenti della Normale di Pisa, il giovane e geniale matematico Paolini, «riccio, con espressione del viso funesta, serissima; e invece birba matricolata».
Ma soprattutto, di questo insolito romanzo è pregevole lo stile fantasiosamente corposo, mutevole nei suoi registri, a volte asciutto e sbrigativo, altre volte sinuoso ed enfatico, con qualche cadenza dannunziana. Anche il tono, di solito divertito, ha scarti improvvisi, e verso l’epilogo della vicenda diventa epico-tragico. Ecco, ad esempio, la fine del vecchio Beppe Nadi: «Morì, gli occhi coperti da una pellicola di lacrime opaca come quella dei passeri morti di freddo in un cortile»; ecco anche la lunga agonia di Aldo, malato di angina pectoris, che tuttavia, pur consapevole della fine imminente, e circondato dalla dolente devozione degli allievi della sua palestra, continua a insegnare, ma guardandosi intorno con sorriso beffardo, quasi volesse dimostrare, un po’ follemente, secondo l’eccesso della sua natura, di spregiare persino la morte, o comunque di esserle indifferente.


Ma le ultime righe del libro, visionarie e metafisiche, dedicate a Aldo morto, che sale fra le costellazioni e incontra il fratello Nedo inginocchiato in preghiera davanti alla Madonna, non sembrano nelle corde dell’autore, anche se spiegano l’esergo-dedica iperreligioso dell’inizio.

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