L'incubo italiano degli inglesi: chi era Amedeo Guillet, il "comandante Diavolo"

Leggende e battaglie del "Comandante Diavolo" Amedeo Guillet nel pieno della campagna d'Africa Orientale

L'incubo italiano degli inglesi: chi era Amedeo Guillet, il "comandante Diavolo"

17 maggio 1941: il Duca Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia e comandante delle forze italiane in Africa Orientale, si arrende assieme alla guarnigione dell'Amba Alagi di fronte a soverchianti forze britanniche e dei reami del Commonwealth guidate dal generale Alan Cunningham, sancendo l'inizio della fine della breve avventura coloniale italiana nell'ex Abissinia, occupata tra il 1935 e il 1936 su ordine di Benito Mussolini.

Molto spesso dimenticata dalla storiografia maggioritaria, però, è l'epopea personale degli ufficiali e dei combattenti italiani e coloniali che, dopo la sconfitta del Regio Esercito, non capitolarono assieme al resto dell'armata in Africa Orientale ma condussero, nei mesi finali della campagna e in quelli successivi, guerriglie personali contro le forze britanniche ed etiopi fatte di azioni "mordi e fuggi", raid e azioni diversive. Quando il viceré si arrese ai britannici la più celebre di queste bande combattenti era già attiva e mobilitata, operando sotto il comando del tenente Amedeo Guillet.

Piacentino, classe 1909, proveniente da una nobile famiglia piemontese, formato all'Accademia Militare di Modena come cavalleggero e divenuto tra i maggiori talenti italiani dell'equitazione, Guillet vide i suoi destini legati inscindibilmente all'Africa da quando, nel 1935, fu chiamato a comandare un reparto di spahis libici nelle azioni d'apertura della campagna italiana in Africa Orientale contro l'impero di Hailè Selassiè. La guerra impedì, peraltro, a Guillet di partecipare alle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Tra la Libia, l'Africa orientale e la Spagna, nella cui guerra civile fu al comando di un reparto di cavalleria marocchina, Guillet si plasmò come uno dei migliori ufficiali della cavalleria coloniale del Regio Esercito. Un particolare pregio apprezzato dalle truppe coloniali al comando di Guillet era la sua profonda conoscenza del mondo islamico, la padronanza della lingua araba e dei costumi delle società di provenienza delle sue truppe (in larga parte beduini) e il rispetto per le differenze tra popoli e culture. Nel 1937 il governatore della Libia Italo Balbo scelse, a tal proposito, proprio Guillet per organizzare la celebre cerimonia in cui a Mussolini fu conferita la spada dell'Islam durante una visita a Tripoli.

L'uomo che nel 1939 fu chiamato dal viceré Amedeo a comandare in Etiopia un reparto di truppe indigene eritree era dunque un ufficiale unico nel suo genere nel panorama italiano. Il tenente Guillet plasmò così il Gruppo Bande Amhara, un reparto forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da ufficiali italiani.

Guillet raccolse sotto i comuni simboli della croce cristiana e della mezzaluna islamica, preferiti ai simboli del fascismo, le identità minori di un'Africa orientale ai bordi del Secondo conflitto mondiale e le strinse in un manipolo compatto che vive oltre la battaglia e le sue regole

Comandante estremamente empatico e diverso dagli ufficiali coloniali medi del tempo, scevro da qualsiasi pregiudizio razzista o da pensieri concernenti presunte superiorità etniche o morali dei colonizzatori sui colonizzati, Guillet forgiò un forte spirito di corpo che tornò utile alla sua unità quando, tra la fine del 1940 e l'inizio del 1941, l'impero africano dell'Italia iniziò a esser travolto dalla marea montante dell'offensiva britannica in seguito alla dichiarazione di guerra di Mussolini del giugno 1941.

Guillet capì che di fronte alla minorità italiana e alla preponderanza di mezzi e risorse del nemico l'unica soluzione per le sue forze poteva essere l'avvio di campagne di guerriglia e di incursioni contro le avanguardie britanniche, costituite dalla potente "Gazelle Force". "Il 19 gennaio, la IV e la V Divisione indiana", racconta John Keegan in "La Seconda guerra mondiale", "attraversarono il confine a Nord del Nilo Azzurro e incontrarono scarsa resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri Amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici". Quell'ufficiale era Amedeo Guillet, che andò vicino a travolgere e catturare il comando nemico. Colpendo con sciabole, pistole, bombe a mano le truppe appiedate e i reparti blindati britannici, attaccando di sorpresa e dando vita all'ultima carica di cavalleria della storia africana Guillet e i suoi, con un conto di perdite salatissimo (800 tra morti e feriti) evitarono la rotta delle truppe italiane permettendone la ritirata verso la piazzaforte di Agrodat.

Montando il suo cavallo bianco Sandor e colpendo retroguardie, colonne logistiche e reparti isolati Guillet e la sua armata contribuirono nelle settimane successive a dare fiato alle truppe italiane tagliate fuori da ogni collegamento con la madrepatria. Scriveva nel 2004 Il Foglio: "Le imprese del Cummundar-as Sbeitan, il Comandante Diavolo, e dei suoi cavalieri del Gruppo Bande Amhara, danno molto filo da torcere agli inglesi che gli dedicano tuttora ammirati articoli di giornale. Amedeo Guillet è l'italiano che smentisce il luogo comune, ben diffuso tra i britannici, secondo il quale gli italiani sarebbero "useless in combat", inetti in battaglia, mentre "The Italians' last action hero" è il titolo con cui l'Observer ha presentato la biografia di Guillet scritta dal giornalista Sebastian O'Kelly e intitolata "Amedeo. A true story of love and war in Abyssinia".

Mentre le fortune italiane in Etiopia andavano declinando, ad aprile Guillet prese la decisione di condurre in Eritrea un'estrema resistenza organizzata, assumendo il nome di battaglia di "Cummandar es Sciaitan" (Comandante Diavolo), radunando attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi ex-soldati indigeni e dando continuamente filo da torcere alle truppe di Sua Maestà. Guillet fu oggetto di timore e ammirazione tra i britannici, come detto in precedenza stupiti e irritati dalle azioni coraggiose di un imprendibile maestro della guerriglia. Specie considerato il fatto che altri gruppi simili a quello di Guillet andavano costituendosi in Africa Orientale, dai Figli d'Italia, formati da reparti di camicie nere, al Fronte della Resistenza composto da militari sbandati del Regio Esercito.

Quando a ottobre 1941 l'Impero di Mussolini era ormai un ricordo e anche per l'Italia le sorti della guerra iniziavano a farsi pericolosamente preoccupanti, Guillet pensò che tentare il ritorno in patria e non sottoporre ulteriormente i suoi uomini a sacrifici e rischi ulteriori fosse la scelta migliore. Si installò in Eritrea, sotto falso nome, nella città di Massaua. Ahmed Abdallah al Redai, questo il suo pseudonimo, lavorò come scaricatore di porto, subì rapine e pestaggi da parte di contrabbandieri, raggiunse infine il neutrale Yemen. Qui, prosegue Il Foglio, "raggiunta Hodeida Guillet va a Sanaa dove è ricevuto dall'iman Yahiah che gli offre ospitalità, protezione e il grado e lo stipendio di colonnello yemenita. Per l'iman l'Italia è un paese amico, il primo ad averne riconosciuto l'indipendenza dalla Turchia".

Guillet lavora al fianco della famiglia reale, fa il precettore dei principi per un anno ma nonostante sulla sua testa penda la condanna a morte degli inglesi per il suo ruolo di "bandito", vuole tentare il ritorno in patria: "con l'aiuto dell'iman si imbarca infine per Massaua, nel giugno del 1943. Da lì come clandestino sale sull'ultima delle tre navi della Croce Rossa Italiana; per non essere riconosciuto dalla scorta britannica, con la complicità del capitano, viene nascosto nel reparto dei malati di mente". Tornò in Italia il 3 settembre 1943, mentre a Cassibile veniva firmato l'armistizio siglato dal governo Badoglio. Dopo il suo annuncio, cinque giorni dopo, la fedeltà al giuramento per il Re ebbe in lui la meglio: attraversò la linea Gustav, giunse a Brindisi e si arruolò nelle forze italiane che lavoravano alla nascita dell'esercito post-fascista. Guillet lavorò fino a fine guerra nel Servizio d'informazioni militari (Sim) e, dopo la fine della guerra e della monarchia, nel 1947 iniziò una lunga carriera diplomatica che lo avrebbe portato a essere incaricato d'affari nello Yemen che lo aveva accolto e poi ambasciatore in Giordania, Marocco, India. Senza mai scordare la terra in cui costruì la sua leggenda militare, quell'Eritrea che lo avrebbe riaccolto, oramai novantenne, come un antesignano della lotta di liberazione nazionale. Strinse la mano al presidente Isais Afewerki e incontrò, per l'ultima volta, gli ex compagni d'arme sparsi tra Asmara e Massaua.

Guillet morì più che centenario nel 2010, dopo esser stato onorato del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Militare d'Italia dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. Di lui restano i ricordi e l'epopea romantica di un ufficiale che seppe negare sul campo il mito dello scontro di civiltà e tenere alto l'onore militare dell'Italia e di un'armata abbandonata al destino della disfatta da un regime imbelle e lontano. Il Comandante Diavolo costruì una di quelle leggende contemporanee che solo l'Africa è capace di creare e seppe conquistare, sul lungo periodo, l'onore e il rispetto di quei nemici che lo avevano a lungo cercato invano. Vittorio Dan Segre, biografo di Guillet, scrisse che "Lawrence d'Arabia aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva e milioni di sterline d'oro con cui comprava la fedeltà.

Amedeo Guillet non aveva un becco d'un quattrino, non aveva il sostegno di nessun impero e di nessuna forza politica". Ma seppe creare un'epopea militare e umana contemporanea. Andando oltre e mostrando la pusillanimità di qualsiasi retorica che parli di scontri di civiltà.

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