Il Tramonto del sogno americano di Alberto Bellotto, primo libro della nuova collana curata da Andrea Indini edita da Giubilei Regnani, guida il lettore, anche quello meno avvezzo alle faccende americane, attraverso la strettissima attualità di quella che sembra essere la seconda “età dell’ansia” per l’Unione, analizzandola attraverso i fondamenti della storia del Paese. Con occhio scevro dalle idealizzazioni dell’American dream quanto dall’antiamericanismo radical chic, i tratti distintivi della società d’Oltreoceano vengono snocciolati per guidare a comprendere l’oggi. I cromosomi del complesso Dna americano vengono sequenziati attraverso un leitmotiv piacevolissimo che è la cultura popolare. Nello spiegare l'America convivono, fra le pagine, John Denver e John Steinbeck, Leonardo Di Caprio e John Ford, il sergente Hartmann e Marylin Monroe, Jimi Hendrix e Sex and City, Eddie Wedder e Forrest Gump, Henry David Thoreau e Johnny Cash.
Si parte dall’America violenta, quella dei riots che, quasi con fare ciclico, interessano le grandi città del nord e del sud: a ondate, mettono a ferro e fuoco i grandi distretti per poi lasciar tornare la quiete, as usual. C’è poi il razzismo: nella nazione che nacque come mescola e che venne riproposta come melting pot, le discriminazioni razziali sembrano confermarsi come sistemiche: dalla “peculiare istituzione”, passando per il Jim Crow System fino al Black Lives Matter, non v’è luogo d’America che non sia stato toccato dalla segregazione: un mito che Bellotto cerca di sfatare, dati alla mano, è quello di un sud segregazionista vs. un nord progressista, così come la dicotomia democratici-solo- pro ethnics/repubblicani-solo-razzisti. Difficoltà croniche che sempre più spesso si tenta di scavalcare attraverso l’esasperazione della cancel culture, spostando l’attenzione più sui simboli che sulle azioni concrete per sanare le ferite di un Paese arrugginito e scollato.
Poi c’è lo sport, altro filo conduttore della nazione, dai campetti delle periferie fino alle paillettes della finale del Super Bowl, che fa da sfondo alle vite di veri eroi e antieroi nazionali: non c’è messaggio che in America non sia passato anche attraverso gli atleti. Che si tratti dei pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos, dell’epopea di vita di Rubin “Hurricane” Carter e di Babe Ruth o delle imprese di Michael Jordan, gli spalti sono un topos della nazione. Pallacanestro e football, ancora oggi, salvano migliaia di ragazzini da contesti decadenti e degradati; restano i più popolari perché maggiormente accessibili e praticabili quasi ovunque. Bellotto, anche questa volta dati alla mano, sfata però il mito dello sport che si schiera compatto dinanzi al razzismo e alle discriminazioni: se gli atleti si sono quasi sempre mostrati uniti nei gesti, mostrando l’inclusività nelle squadre, società e dirigenze restano conventicole Wasp.
A fare da fil rouge nella storia degli Stati Uniti, l’idea della frontiera: quella fisica, croce e delizia dei pionieri, poi quella riscritta da Kennedy, e poi quella ancora da riscrivere, oggi. L’autore racconta attraverso la vita di tutti i giorni, il sentimento americano del continuo mutare che passa attraverso disastri ecologici, case costruite infinite volte, trasferimenti da una costa all’altra. Dall’assenza del mito del posto fisso fino all’ossessione survivalista, gli americani vengono raccontati nella loro abitudine al cambiamento, alla ricerca dei segni della predestinazione che li accompagna dai tempi della Mayflower.
Il libro si sofferma, poi, su un’idiosincrasia atavica degli americani per le tasse. La nazione che partorì il principio del no taxation without representation oggi vive una spaccatura epocale tra ricchi e poveri, soprattutto dopo il 2008. Una crisi terribile che ha fatto venir meno la mobilità sociale su cui si è sempre fondato il sogno americano. È questa faglia che addolora e avvelena il Paese, fagocitando perfino la questione razziale: la vera battaglia, adesso, è tra l’America agiata e quella dei working poors. Vi è poi un luogo ben preciso in cui il peggio della discriminazione incontra la povertà: ed è la “nazione indiana”, termine patinato per definire il complesso delle riserve destinate ai nativi ove regnano carenze idriche, sovraffollamento, ludopatie, alcolismo e veri “deserti alimentari”. Un’onta per il popolo, anzi i popoli, che possono dirsi davvero “americani” dal principio.
Se c’è invece un dramma realmente trasversale, per età, sesso, etnia e classe sociale è quello delle dipendenze. L’autore racconta bene quanto gli armadietti bianchi dei farmaci, nei bagni dei cittadini americani, pullulino di strumenti di morte: dai banali antidolorifici (la panacea per chi, senza assistenza sanitaria, può curare solo i sintomi) fino ai barbiturici nelle classiche boccette color arancio. Non serve arrivare alle droghe pesanti nella terra che pur vive il dramma degli oppioidi e dell’eroina: si muore per molto meno nelle case americane, spesso più volte nella stessa famiglia.
Nell’America violenta e contorta, un posto sacro è occupato dal Secondo Emendamento, il fondamento costituzionale sul quale i cittadini americani erigono il proprio diritto a imbracciare le armi. Un rapporto complesso e quasi viscerale con fucili e pistole: dai personaggi simbolo della storia, passando per i pionieri, fino al cinema di oggi. Le armi per gli americani costituiscono la soglia più intima del proprio diritto alla sicurezza ma, allo stesso tempo, sono la ragione delle più grandi tragedie nazionali. Il mondo americano fa i conti continuamente, attraverso le mass shootings, con una regolamentazione del possesso di armi fallace e dominata dalle grandi lobby come la Nra: su questo tema si verifica la saldatura tra l’americano che si è ribellato agli inglesi, quello che ha attraversato la frontiera e quello che vive nell’America della pandemia, dove l’arma è drammaticamente libertà d’espressione per certi gruppi sociali a cui Washington non riesce o non vuole mettere un freno.
In questo strano Paese, perennemente sospeso fra la “città sulla collina” e Sodoma, tutto viaggia sul filo che separa la mania dalla fobia. Il sesso non fa eccezione. Permea la cultura popolare a suon di materiali porno, proprio in quello che è anche il regno del moralismo puritano. Questo problema nazionale con il sesso affligge anche la Casa Bianca e il Congresso: la maggior parte degli scandali pubblici, infatti, ha che fare proprio con gli aspetti pruriginosi della vita privata dei politici o, peggio ancora, con reati di tipo sessuale. Ma se si guardano i dati, si arriva addirittura a scoprire che la libertà sessuale, che ha fatto degli Stati Uniti degli anni Sessanta il proprio terreno di cultura, è andata perdendosi nel suo senso più complesso, nonostante il cinismo pop di serie come Sex and City, che hanno ri-sdoganato la libertà sessuale dopo gli anni duri dell’Aids.
Non si può, capire l’America senza comprendere come funziona la macchina che sta dietro alle scelte del Pentagono, ricorda l’autore. Quasi tutte le generazioni americane hanno combattuto una guerra e da tempo immemore arruolarsi è un modo per mettere assieme il pranzo con la cena, soprattutto in certe aree del Paese. Qui la moria dei soldati affligge la comunità più che altrove e dissemina le strade di “tenenti Dan”, lasciati in balia di sé stessi. Nel racconto trova posto anche un'analisi sulla ossessione per i complotti e gli X-files: la società americana, più di altre, tenderebbe a rispondere, infatti, a problemi complessi con risposte semplici. Ecco spiegato il florilegio di teorie sugli alieni, il fenomeno Qanon, le reazioni isteriche alla pandemia, le leggende sulle città fantasma, l'ossessione per massoni, comunisti e neonazisti, fino al cold case per eccellenza: l'uccisione di John Fitzgerald Kennedy.
All'interno di questo ritratto della giostra americana, l'autore trova un posto perfino al verbo perdersi. La nazione caotica per eccellenza è anche il luogo perfetto per scomparire. Lo hanno fatto in tanti, da Henry David Thoreau a Christopher McCandless, assieme a centinaia di altri piccoli grandi eremiti in fuga dal caos. Last but not least, Bellotto chiude il suo ritratto chiedendosi che fine abbia fatto il sogno americano in questo Paradise lost.
La risposta che si dà è che la domanda stessa non ha senso, considerando che America e americani, in fondo, “non esistono”. Essendo irripetibile il miracolo degli anni Trenta, il sogno americano sembra cambiare pelle: da e pluribus unum a e pluribus… e basta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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