Da lungo tempo annunciato, il momento in cui l'Europa deve prendere nelle sue mani il fardello della propria difesa è arrivato. Questo delicato passaggio storico ha il volto poco amichevole di Donald Trump da una parte, e quello apertamente minaccioso di Vladimir Putin dall'altra. In mezzo tra un alleato che ha pochissima voglia di essere nostro amico e un vicino orientale che si dichiara apertamente nostro nemico, c'è un'Europa viziata da 75 anni di pace sotto il rassicurante ombrello difensivo americano. E che si era illusa che con un nostalgico dell'impero staliniano come Putin si potessero fare affari dimenticando che i suoi appetiti non si esauriscono nell'ambito commerciale.
Benvenuti nel mondo reale, versione 2025. Con una guerra che da tre anni divampa ai confini orientali del continente, una Nato messa in discussione dal suo Paese fondatore e perno insostituibile, e decisioni fondamentali da prendere con urgenza. Ieri Trump ha cominciato a quantificare quel che fin qui aveva espresso per slogan: intende ridurre del 20% la presenza militare Usa sul suolo europeo, il che significa riportarsi a casa 20mila dei 100mila uomini in armi che oggi sono il nerbo del nostro sistema difensivo. Non è tutto: pretende che gli alleati europei paghino per il deterrente messo a disposizione da Washington, arrivando a investire in difesa il 5% dei propri bilanci. Una quota esorbitante, che nemmeno gli stessi Usa raggiungono.
Con fatica, i consiglieri del presidente gli fanno intendere che su queste cifre bisognerà negoziare, e che abbandonare l'Ucraina al suo destino è una follia. A Trump, va ricordato, dell'Ucraina non importa nulla, pensa che sia un problema europeo e pretende che siano soltanto loro ad affrontarlo. Se Volodymyr Zelensky che ieri a Davos ha ripetuto che per proteggere il suo Paese gli americani sono indispensabili - può sperare che l'America non tradirà il suo popolo, è solo perché nella sua vanagloria Trump non vuole che il suo nome venga associato a un ritiro umiliante come quello di Kabul nel 2021. Ma quanto all'effettiva capacità del presidente-tycoon di ottenere da Putin un'intesa conveniente sulla fine della guerra, c'è molto da dubitare: ieri ha minacciato di imporre sanzioni anche a Mosca (lo fa con tutti) se Putin non s'impegnerà per far finire «questa guerra ridicola». Meno che mai il suo inviato speciale Keith Kellogg, un generale in pensione conosciuto come yesman senza esperienza diplomatica, sembra in grado di far mantenere al suo presidente le impegnative promesse fatte in campagna elettorale.
L'ansia però, al momento, è tutta in campo europeo. L'«altro Donald», il premier polacco Donald Tusk che avrà fino a luglio la presidenza di turno europea, usa toni ben diversi da quelli del predecessore ungherese Viktor Orbàn: «Non abbiate paura ha detto mutuando una celebre frase del Papa polacco Karol Wojtyla -: il futuro è nelle nostre mani e non in quelle cinesi o americane. Non sono un militarista, ma se l'Europa vuol sopravvivere dev'essere armata». E nessun Paese come la Polonia può capire i rischi di avere come vicino la Russia, che nel 1939 la invase d'intesa con Hitler e che oggi invade l'Ucraina e pretende per sé «garanzie di sicurezza» a scapito di quelle degli altri.
A Tusk fa eco l'estone Kaja Kallas, «ministro degli Esteri» dell'Ue: «Non ci può essere alcun dubbio che dobbiamo spendere di più per prevenire la guerra, dobbiamo prevenire il peggio. E non serve un esercito europeo, ma un efficace collaborazione tra i Ventisette per poterci difendere anche da soli, se sarà necessario».
Il Commissario alla Difesa Andrius Kubilius lavorerà con Kallas e Von der Leyen per garantire che dalle parole si passi ai fatti. Fatti che sono anche rapporti di potere interni all'Ue: il presidente Macron e il cancelliere Scholz che ieri hanno rilanciato a parole il ruolo guida di Francia e Germania in un'Europa «forte e sovrana».
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