Spazio aperto, spazio infinito, spazio (im)possibile... Spazio, spazio! Ci vuole più spazio... Serve spazio per crescere, spazio dove abitare, spazio da esplorare, spazio in cui lavorare, spazio da liberare. Tutti chiedono spazio. E Venezia, Biennale d'Architettura, edizione n° 16, anno 2018 la prima senza un ministro certo per inaugurarla - ne offre parecchio. Chiedendosi: come rendere più ampio, bello e confortevole lo spazio (pubblico e gratuito) in cui viviamo? Risposta: Freespace. Che è il titolo, figlio di un Manifesto programmatico firmato dalle curatrici e inviato a tutti i partecipanti, della Biennale: 100 partecipanti fra studi e architetti, 65 Padiglioni nazionali, sei mesi di apertura, da sabato al 25 novembre, e un traguardo fissato a 300mila visitatori (due anni fa furono 280mila, mentre la Biennale Arte veleggia sui 650mila). Ideatrici e curatrici della Biennale, ecco a voi: Yvonne Farrell, la bionda, e Shelley McNamara, la rossa, dublinesi per vita e lavoro, 66enni in formissima, 40 anni di sodalizio professionale, uno studio Grafton Architects fondato nel 1977 che ha realizzato scuole e edifici per istituzioni e università, tra cui nel 2008 la «nuova» Bocconi a Milano: insegnano all'University College di Dublino e hanno una cattedra di Architettura all'Accademia di Mendrisio (forse il motivo di così tanti svizzeri invitati).
Parola d'ordine: spazio (pubblico), fil rouge che annoda tutti i progetti, le idee, le proposte rinchiuse nell'enorme spazio veneziano, dentro una Biennale d'Architettura mai così poco ad usum archistar e così tanto dalla parte dei cittadini. Meno utopie e spettacolo, più pragmatismo e concretezza. Ma, poi, a cosa serve esattamente la Biennale di Architettura a un non addetto ai lavori? «A scoprire che sei un addetto ai lavori - è la provocazione del presidente della Biennale, Paolo Baratta - L'organizzazione dello spazio in cui viviamo dipende da noi. Siamo noi che dobbiamo chiedere di più. Siamo consumatori esigenti di tutti i prodotti, dal cibo alla moda, e poi subiamo passivamente qualsiasi cosa ci mettono davanti agli occhi, anzi davanti a casa. Lo spazio pubblico non dev'essere uno spazio di nessuno. Ma nostro». Spazi che devono essere ripensati, cambiati, aperti.
Ed eccoli gli spazi pubblici della Biennale, che il duo Farrell-McNamara iniziando dal suo spazio espositivo ha spalancato, anche materialmente, rendendo più arioso il Padiglione centrale, aprendolo ogni volta che era possibile verso l'esterno con finestre ed affacci; e liberando completamente le Corderie dell'Arsenale.
Freespace. Si inizia dai Giardini, come sempre. La riflessione su alcuni progetti storici si interseca con quelli di ricerca. L'esterno si connette all'interno, il passato al futuro. Incipit. Sotto la cupola decorata da Galileo Chini nel 1909 - perché il tempo non è mai lineare in architettura ecco The Factory Floor, migliaia di piccole piastrelle d'argilla fatte a mano in un laboratorio di Liverpool, come la pavimentazione delle chiese medievali. Prego, accomodatevi. Nel Padiglione centrale l'esibizione più elegante la offre Odile Decq, con la ristrutturazione del 2011 del ristorante dell'Opéra Garnier di Parigi: come reinterpretare un edificio storico rispettando la rigida legislazione che tutela i monumenti e l'estetica dello stile Secondo Impero? Alterando la percezione dello spazio: colonne-pilastro, una parete in vetro trasparente curvilineo, tappeti rossi e acciaio specchiante. Il progetto più impegnato invece propone Sei Tesi per la Città di via vai per assorbire il (ri)flusso delle migrazioni, evitando tensioni sociali e speculazioni immobiliari (quando l'architettura è utopia?). Mentre la visione più futuribile (che riflette sul rapporto umanità-clima) si presenta come un enorme plastico di Lower Manhattan, New York, Humanhattan 2050: una «collana» di piante resistenti alla salinità lunga 16 chilometri come sistema protettivo da inondazioni e tempeste. Componenti civiche a prova di futuro.
Attenti, inchinatevi: sfilano le esibizioni - tra tante di David Chipperfield, Paulo Mendes da Rocha e Robert McCarter. E superata l'imperdibile visuale (sarà fotografatissima) del doppio ovale di Carlo Scarpa del 1952 che si affaccia sul canale interno dei Giardini e riaperto dalle curatrici (altro «nuovo spazio» recuperato) ecco passando da una finestra alle celebri «finestrature» l'omaggio a Luigi Caccia Dominioni: le foto e i disegni della casa in via Santa Maria alla Porta a Milano sono custoditi dentro un abside-atrio «per rinfrescare il rapporto fra passato e contemporaneità».
Arcaico, presente e futuro. Eccoci, siamo alle Corderie dell'Arsenale, «secondo spazio» della Biennale. Se c'è un momento in cui il visitatore può permettersi un'emozione, è qui: le curatrici hanno completamente liberato l'infilata centrale, 317 metri in un solo sguardo infinito, sul pavimento le distanze misurate in piedi veneziani, sul soffitto la videoproiezione delle parole chiave del Manifesto-Biennale, e ai fianchi dell'infinita promenade, da sud a nord, tra una colonna e l'altra, sfilano tutti gli architetti invitati che hanno risposto - in modi diversi, coraggiosi, utopici, geniali, divertenti, spiazzanti - ai concetti proposti dalle sacerdotesse Farrell-McNamara. Lo spazio come opportunità, gli spazi illegali da recuperare alla comunità, il movimento dentro lo spazio pubblico, i doni dello spazio naturale, la salvaguardia dello spazio della memoria... A ognuno il suo progetto. Un avveniristico kindergarten in Nuova Zelanda, una vecchia cooperativa operaia degli anni '20 a Barcellona diventata un teatro, un (irrealizzabile) rifacimento del Corviale: un chilometro di edificio per 7mila inquilini, firmato da Laura Peretti, e visto così, in un plastico, vorremmo tutti abitarci... E poi una minuscola biblioteca, la più isolata della Cina, sulla spiaggia di Beidaihe, pensata per 75 lettori, tutti si chiedevano chi ci sarebbe andato, e oggi è visitata da 3mila persone al giorno. Micro e macrocosmi che, ricomposti, formano il nostro futuro di cittadini. Più libero (ma anche liberale?), più vivibile, più condiviso più di tutti. «L'architettura non è un club esclusivo», dice Yvonne Farrell.
Al di fuori della Biennale un'esposizione molto femminile ma non femminista, più materiale che intellettuale resta l'«altro» mondo. Affacciata sul bacino dell'Arsenale, una grande copertura in bambù l'«acciaio verde» del XXI secolo, dall'arte povera all'architettura poverista realizzata da uno studio della Repubblica socialista del Vietnam. Qui si riposeranno tutti, selfie compreso nella sosta. Dopo inizia il giro dei Padiglioni nazionali.
Tra i tanti: lo spazio sacro del Vaticano (dieci cappelle sull'Isola di San Giorgio contro le «chiese brutte» di oggi); lo spazio della memoria della Germania, che reinterpreta il Muro, durato 28 anni, 28 anni dopo il crollo; lo spazio assoluto della Gran Bretagna, che lascia vuoto il padiglione ma apre per la prima volta a una vista totale il tetto-terrazza; e lo Spazio infinito, con la S maiuscola, degli Stati Uniti, che mappano i territori extraplanetari, alla ricerca di nuovi spazi... Una delle prossime Biennali, si costruirà là?
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