Dall'Alighieri a Battiato, la poesia è arte immateriale

La canzone popolare è una contaminazione fra musica e versi. E Leopardi incontra Lucio Battisti o Gino Paoli

Dall'Alighieri a Battiato, la poesia è arte immateriale

Da diversi anni, una personalità importante della cultura italiana, Davide Rondoni, mi parla, con grande preoccupazione, di qualcosa di estremamente importante: il destino della poesia. E me ne parla al rintocco di anniversari di poeti e opere, tema al quale mi sa molto attento.

Nel 2016, nella mia città, Ferrara, si tenne una grande e bella mostra sulla prima edizione dell'Orlando furioso, quella del 1516, scritta peraltro nella casa che fu di mia madre, in Via Giuoco del Pallone 31. Un'edizione in cui Ariosto scriveva ancora una lingua contaminata dalla sua natura padana, dialetto quasi, che poi, dopo il 1525, una volta edite le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, lo stesso Ariosto trascrive in lingua italiana, cioè in lingua toscana. Un procedimento analogo a quanto farà trecento anni dopo Alessandro Manzoni, che andò «a sciacquare i suoi panni in Arno», cioè a riscrivere I Promessi Sposi in lingua toscana, che è, appunto, la lingua italiana. Quell'anniversario ariostesco, il 2016, invece di celebrare la personalità (Ariosto), celebrò l'opera, l'Orlando furioso, a mezzo millennio dalla sua prima edizione. Lo stesso accadde con L'infinito di Giacomo Leopardi, del 1819, che io celebrai con una mostra nel 2019.

Il titolare di quella preoccupazione con cui ho esordito, Davide Rondoni, insegna che la poesia è vita, pulsa dentro di noi. Nonostante ciò, la leggiamo sempre meno, abbiamo smesso di mandarla a memoria, la studiamo a scuola per dimenticarla quasi subito, e per intero, come si dimenticano i nomi e le date delle battaglie, e non la andiamo più a ricercare, se non in occasione di qualche anniversario. Pochi vanno a rileggere Tasso, Parini, Alfieri, Foscolo. Ci sono editori encomiabili che ospitano, con qualche fatica, collane di poesie, dove pubblicano classici e nuove voci. Ci sono edizioni nazionali mirabili, necessarie, che però finiscono lontane da noi, si inabissano nei templi della cultura italiana o nelle biblioteche.

Un editore straordinario, che negli anni '90 inventò la collana di libri a «Millelire», Marcello Baraghini, mi confidò che l'unico poeta che veniva acquistato e letto dopo la scuola, in quantità significative, è Leopardi con i suoi Canti. Come se Leopardi avesse intercettato una dimensione che sfugge alla violenza di una scuola che ti impone come materia obbligatoria ciò che tutto può essere meno che obbligatorio, cioè la poesia.

Mio padre, Giuseppe Sgarbi, nato nel '21, aveva un'ampia scelta di poesie nella memoria, da cui attingere per nominare la quotidianità di situazioni e sentimenti della sua vita a Ro Ferrarese. Non per stupire, ma per orientarsi nello sguardo, nei pensieri e nelle emozioni. E quando incontrava il dotto professore di Letteratura Rinascimentale Nuccio Ordine, si apriva tra loro una singolar tenzone, in cui il professor Ordine e il farmacista Nino seducevano l'uditorio citando all'impronta versi di Baudelaire, Pascoli, Carducci, e ovviamente Leopardi. Ma l'uno era un professore, l'altro un farmacista, che sentiva la poesia essere un tutt'uno con se stesso.

Quando Dario Fo vinse il premio Nobel, pensai che il suo linguaggio e la sua potenza espressiva rimontavano alla Commedia dell'arte, al Ruzante, con una capacità di raccontare che andava oltre la pagina, con un'urgenza che ci riguardava profondamente. Ecco, quando vinse il Nobel, pensai allo sconfitto, al Nobel mancato, a Mario Luzi, un grande poeta, sensibile, pieno di curiosità. Ma se io vi chiedessi di ripetere un solo verso di Luzi, fareste fatica a ricordarlo. E se non sai a memoria un verso, vuol dire che il poeta non è dentro di te. Luzi è un poeta laureato e aulico, mentre Dario Fo è un poeta popolare. La lingua italiana è molto chiara in questo: si chiama «volgare». Dante scrive il De vulgari eloquentia in latino per dire ai dotti che la lingua nostra è quella del popolo, per il popolo.

Allora, cosa avviene a partire dagli anni Cinquanta, alla poesia, e come rispondere alle inquietudini del poeta Rondoni? Avviene che, siccome non si può fare a meno della poesia, nasce qualcosa che è una contaminazione fra la musica lirica e la poesia, la canzone popolare. Non che non ci fosse prima la canzone come genere, ma tutti noi abbiamo iniziato ad avere in mente, nel cuore, sulla lingua, e dentro di noi, le canzoni di Mogol e Battisti, di Celentano, o le voci di Ornella Vanoni e di Mina. Sapore di sale è una poesia che ha oltre sessanta anni, meravigliosa, e ognuno se la canta dentro, perché non puoi stare senza la poesia. La canzone italiana, tra la fine degli anni Cinquanta a oggi, fino a Olly e Lucio Corsi del Festival di Sanremo appena trascorso, rappresenta l'urgenza della parola poetica dentro di noi.

Se i poeti non hanno la forza di parlarci, se rimangono chiusi nella loro pagina, pur meravigliosa, qualcosa di più forte, come sono state la poesia di Petrarca e di Leopardi, si riversa nella canzone popolare (popolare nel senso del volgare di Dante) di De André, Paolo Conte, Nannini. Paolo Conte è grande come Leopardi. Il ragazzo della via Gluck di Celentano è del 1967, ha cinquantotto anni, eppure è ancora presente e viva. È la forza della poesia tradotta in un tempo che non può vivere senza poesia, ma non può accettare che la poesia sia distante da noi.

La poesia a scuola è un luogo di incubazione, ma ha poca speranza di sopravvivenza e generalmente viene abortita come gran parte dei poeti che a scuola studiamo. Leopardi invece fugge dalla scuola ed entra nella nostra vita quotidiana. È per questo che continuiamo a leggerlo e celebrarlo; Leopardi è capace di giocare la sua partita con Battiato, Mina e Patty Pravo. La poesia di Leopardi è dentro di me come quella che si era calata sul mio corpo quando, in collegio, a quindici anni, ascoltavo Ragazzo triste di Patty Pravo, che per me era importante come Cesare Pavese.

La poesia soffia dove vuole, e certo anche a Sanremo, anche nel rap. E, come diceva Dante, le nostre vite sono troppo brevi per comprendere a pieno i salti delle epoche e le nuove dimore dello Spirito. Più del giudizio, possono la comprensione e la curiosità.

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