«Dovunque voi siate vi coglierà la morte, anche se foste su altissime torri». Osama Bin Laden aveva ripetuto tre volte questo passo del Corano ai suoi ascoltatori. Diciannove giovani, pronti a farsi martiri. Erano gli uomini degli attentati dell'11 settembre, quel giorno già lontano e ancora vicinissimo di venti anni fa, quando il mondo, il nostro mondo, è cambiato per sempre. Perché davvero, da allora, ognuno ha percepito che la morte - il terrore - avrebbe potuto coglierlo ovunque si trovasse, perfino su quelle altissime torri finite in cenere. Vent'anni dopo, Lawrence Wright, giornalista investigativo americano e autore di Le altissime torri (Adelphi), saggio eccezionale premiato col Pulitzer e diventato anche una bellissima serie tv, continua a occuparsi di ciò che sconvolge il mondo. Dopo Gli anni del terrore. Da al-Qaeda allo Stato Islamico (sempre Adelphi) ha scritto il thriller profetico Pandemia (Piemme) e il più recente The Plague Year: America in the Time of Covid, un'inchiesta su ciò che è accaduto, ciò che si poteva prevedere, quello che si sarebbe potuto evitare... Proprio come in Le altissime torri aveva indagato «Come al-Qaeda giunse all'11 settembre», e come la guerra latente tra Fbi e Cia avesse aiutato i terroristi nella loro impresa folle e letale.
Lawrence Wright, niente ha cambiato il nostro mondo quanto il crollo delle Torri gemelle, nemmeno questo anno e mezzo di pandemia.
«È così. L'11 settembre ha cambiato la nostra società, e quello che mi preoccupa di più è che i giovani non ricordino come fosse la vita prima, prima dello Stato di sicurezza creato in America dopo gli attentati, quando non avevamo bisogno di tutte queste precauzioni. C'era un senso di libertà, e anche di innocenza, che si è perso completamente. E ho paura che sarà dimenticato».
E per il resto del mondo che cosa è cambiato?
«Il terrorismo esisteva, ma non faceva ancora parte della moneta corrente del mondo globale, era qualcosa di episodico. Dopo l'11 settembre tutti sono stati coinvolti, ovunque. In un'epoca di terrore nessuno può stare tranquillo. Allora Al Qaeda era composta da 3-4mila uomini, oggi ne ha 30-40mila».
Dieci volte tanto?
«Dieci volte tanto, in vent'anni. E si sono diffusi altri gruppi terroristici simili, inclusi quelli di supremazia bianca, dei quali Al Qaeda è il modello, con l'aggiunta delle nuove tecnologie, come i droni».
Le immagini delle Torri colpite dagli aerei sono sconvolgenti oggi come vent'anni fa.
«Il terrorismo è stato spesso descritto come un teatro e Al Qaeda ha portato questo teatro a un nuovo livello. Prima dell'11 settembre avevo scritto un film, Attacco al potere: beh, se avessi fatto ricorso a un'idea del genere sarebbe stata considerata troppo hollywoodiana... Al Qaeda ha inventato una forma di terrore così duratura e sconvolgente che rimarrà tale per sempre: nella testa delle persone, che vi abbiano assistito o no, resterà uno dei momenti di choc per l'umanità. Quello che ha agito è stato un genio del male, capace di trasformare il mondo attraverso un evento così fortemente teatrale».
Come l'11 settembre, il Covid ha sconvolto il mondo, e sarebbe stato anch'esso prevedibile...
«È interessante che le persone tendano a cancellare le minacce che la natura ci pone: la Morte nera, l'epidemia di Spagnola. L'11 settembre ha ucciso 3mila persone, la pandemia oltre tre milioni, eppure non abbiamo riassestato la nostra società come dopo gli attentati».
Prima la sottovalutazione, poi le restrizioni: anche la reazione della politica è stata simile?
«Identico è il fallimento dell'intelligence. Gli Usa hanno sedici agenzie, Dio sa quante ne esistano nel mondo, e nessuno è stato in grado di capire, o di prevedere, quanto stava per accadere, e che sarebbe stato una catastrofe per tutti noi. Quando ho lavorato al libro sul Covid, ogni responsabile sanitario con cui ho parlato era convinto che la pandemia sarebbe finita presto. Esattamente come con l'11 settembre, poche persone hanno compreso che là fuori ci fosse una minaccia; e la maggioranza l'ha rimossa».
Anche in questo caso i conflitti burocratici, come quelli tra Fbi e Cia nel 2001, sono stati un ostacolo?
«Fra le agenzie c'era un tale livello di sfiducia e di odio, da consentire agli attentati di essere portati a termine. In questo caso il conflitto è stato fra la Food and Drug Administration e il Centers for Disease Control, che si sono accusati a vicenda, mentre dovrebbero lavorare per proteggere la nostra salute».
In queste grandi tragedie, il giornalismo mostra ancora di avere un ruolo importante?
«Il giornalismo ha dimostrato di avere un valore inestimabile. Dopo l'11 settembre sono stati i giornalisti a capire quello che era successo, andando sul campo e parlando con le persone, facendo ciò che l'intelligence non fa. È la nostra missione: andare e parlare con le persone coinvolte. Senza questo lavoro non ci sarebbe stata alcuna comprensione di Al Qaeda e dell'11 settembre. E così con il Covid: è stato Matthew Pottinger, un ex reporter, che all'inizio della pandemia era viceconsigliere per la Sicurezza nazionale, ad alzare il telefono dalla Casa Bianca e a chiamare le sue fonti in Cina, per capire che cosa stesse succedendo davvero».
L'America ha superato l'11 settembre?
«No. Pensi a quello che è successo dopo: siamo appena usciti dall'Afghanistan e non siamo riusciti a impedire questa trasformazione, nonostante i soldi impiegati e le vite perse in vent'anni. L'America ha intrapreso il sentiero sbagliato ed è diventata un Paese diverso a causa dell'11 settembre: abbiamo fallito in molti modi nel tenere fede ai nostri stessi ideali, con conseguenze tremende per il mondo intero».
L'Afghanistan di nuovo in mano ai talebani è una delusione cocente?
«È orribile, e pericoloso per l'Occidente. Le questioni sono due: una riguarda ciò che gli afghani faranno a loro stessi, con il timore che i talebani non abbiano imparato alcuna lezione; l'altra, che riguarda il resto del mondo, è che Al Qaeda è diventata così forte nel 2001 perché protetta da uno Stato, e se ora la situazione torna identica...»
L'11 settembre può succedere di nuovo?
«Oh, certamente. Al Qaeda è molto più forte di allora e le nuove tecnologie offrono molte possibilità in più».
E l'intelligence?
«Ha evitato azioni eclatanti, ma sono avvenuti innumerevoli attacchi da parte di affiliati; e l'intenzione di compiere atti estremi di terrore non è mutata».
Il problema è anche la tecnologia?
«Al Qaeda ha sfruttato la tecnologia dell'Occidente contro l'Occidente stesso. Se avesse avuto i missili li avrebbe usati, ma aveva a disposizione qualcosa di ancora più efficace: i nostri aerei. Al Qaeda ha immaginato come utilizzare gli strumenti del mondo moderno al fine di distruggere la modernità. E oggi ne ha ancora di più».
Perché dobbiamo ricordare l'11 settembre?
«Per quello che ha fatto a noi, come persone, e perché il mondo è quello che è per l'11 settembre».
E come dovremmo ricordarlo?
«Dobbiamo cercare di capire il nostro comportamento, che ci ha portato a ignorare la minaccia esistente e a non indagare su ciò che stava succedendo nel mondo. È stato un fallimento non solo dell'intelligence, ma anche del giornalismo. E, dopo, l'America ferita, colpita nel suo dolore, ha capito poco di un mondo che voleva rendere più democratico, più simile a sé stessa: è difficile cambiare le persone che non vogliono essere cambiate. Forse è una lezione che possiamo imparare».
Che cosa servirebbe?
«Non solo spie e soldati, ma scambi fra cittadini. Lo so che suona molto soft, ma quello di cui abbiamo bisogno è più comprensione a livello internazionale. Si pensi alla rivalità fra superpotenze, Stati Uniti, Cina e Russia, incredibilmente pericolosa».
Fra i tanti eroi dell'11 settembre, chi è il suo preferito?
«Ali Soufan.
Questo agente dell'Fbi, che allora aveva 26 anni, era l'unica persona di sedici agenzie a parlare arabo ed è stato lui a risolvere il caso e a scoprire chi avesse compiuto gli attentati. E sarebbe anche riuscito a impedire gli attacchi, se la Cia avesse collaborato e gli avesse dato le informazioni sull'incontro di Kuala Lumpur, che poi portò all'11 settembre».
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