Novara
Dopo il successo di Les italiens de Paris, il Castello di Novara si conferma polo di qualità sulla pittura moderna, offrendo gli spunti più interessanti riguardo all'arte a cavallo tra Ottocento e Novecento. Anche la mostra da poco inaugurata Paesaggi. Da Migliara a Pellizza da Volpedo (fino al 6 aprile 2025) si propone come excursus scientifico sugli artisti italiani, o gravitanti nel Belpaese, che diedero contributi significativi all'evoluzione di una pittura che svoltava dall'accademismo per cedere alle brezze di modernità che spiravano da Oltralpe. La mostra, che ha un taglio scolasticamente cronologico, vede esposte 70 opere provenienti da collezioni pubbliche e soprattutto private, con l'intento di far luce sull'evoluzione del paesaggio tra Piemonte e Lombardia dagli anni Venti dell'Ottocento a tutto il secolo successivo. Non mancano capolavori, alcuni ben noti e presenti nelle collezioni pubbliche lombarde come la Gam di Milano, in un fil rouge che mette in evidenza i cambiamenti stilistici dalla pittura di paese di epoca napoleonica alla fase en plein air d'ispirazione parigina, fino alla rivoluzione divisionista.
Tra le varie figure che seppero imprimere una svolta ai gusti dell'epoca, merita ricordare quella di un outsider di tutto rispetto, e non soltanto perché futuro letterato e primo ministro italiano; parliamo di Massimo D'Azeglio, qui a Novara ben rappresentato dal dipinto La morte del conte Josselin di Montmorency, datato 1825. L'ambizioso rampollo della nobiltà cattolica torinese parlò del quadro in una lettera al fratello Roberto: «Adesso sto facendo un soggetto delle Croisades già preso da madame Cottin; ci faticherò, ci spenderò e poi sarà come dell'altro, non importa, ci vuole coraggio e costanza». La costanza di D'Azeglio fu senza dubbio premiata. Il futuro genero di Alessandro Manzoni aveva un grande fiuto per il mercato e aveva ben intuito che i suoi paesaggi istoriati, cioè infarciti di citazioni storiche ed eroiche alla maniera dei nuovi francesi, prima o poi avrebbero fatto breccia nella già modaiola Milano in cui si era stabilito nel 1831 dopo la morte del padre, lontana anni luce dai salotti paludati della Torino sabauda. «Qui a Milano scrisse nei Miei Ricordi vi è un non so che di abbondante, di ricco, di vivace, di attivo, che metteva buon umore a vederlo». Proprio nella città meneghina, del resto, fece alcuni incontri che lo fecero svoltare, come si direbbe oggi; primo tra tutti, don Lisander Manzoni, di cui conobbe e sposò la figlia Giulia. Matrimonio d'interesse? Si direbbe proprio di sì, ma più per scalata sociale che per denaro. Ma tornando al paesaggio di Montmorency, la sua esposizione a Brera al fianco di altri suoi dipinti come la Disfida di Barletta e la Battaglia di Legnano lo consacrò in men che non si dica alla cresta dell'onda del collezionismo milanese. Il letterato Giuseppe Rovani, suo grande estimatore, così racconterà: «I paesaggi di D'Azeglio fermarono l'attenzione dei professori, degli artisti, dei dilettanti, di tutti (...), grazie a un nuovo genere di paese nel quale non aveva competitori».
Il caso di D'Azeglio, nella mostra novarese, appare emblematico dell'importanza della pittura di genere; ma anche delle indiscutibili influenze che puntualmente arrivavano dall'Europa. Verso la metà del secolo, il paesaggismo del Nord Italia fu influenzato dal Naturalismo romantico di autori come Julius Lange (formatosi tra Dusseldorf e Monaco) e soprattutto da Alexandre Calame, grande maestro della scuola svizzera, oltre che dai francesi Francois Daubigny e France-Auguste Ravier. Fra allievi ed epigoni spiccavano il piemontese Antonio Fontanesi e la scuola di Rivara, tutti invasi dalla nuova febbre di rappresentazione del paesaggio dal vero. Tra gli anni '60 e '70, fu sempre il vento d'oltralpe a orientare la pittura di paesaggio lombarda in una direzione verista e d'impressione, a voler restituire sulla tela le luci, i colori e le ombre della natura. Sulla scena del rinnovamento saliranno artisti come Achille Befani Formis, Eugenio Gignous e Filippo Carcano. Inevitabile divenne anche l'attenzione per il paesaggio urbano, quello dei Navigli milanesi e del Carrobbio, con uno sguardo alle città in trasformazione che portò alla ribalta grandi autori forse non adeguatamente valorizzati a livello europeo; si chiamavano Giovanni Migliara, Mosè Bianchi, Emilio Gola e Giovanni Bazzaro.
Tra questi, c'era anche il montanaro trentino Giovanni Segantini, a cui è dedicata l'immagine della mostra, che fece suoi i nuovissimi studi sulla scomposizione ottica della luce e del colore per dare vita alla rivoluzione divisionista del paesaggio; questa sì, autenticamente made in Italy.
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