Delitto e castigo per i piccoli dèmoni giapponesi

Fotografia tersa. Montaggio serrato in stile anime. Accentuata predilezione per le sottolineature dei particolari. Dialoghi fra luce e buio. Kokuhaku, il film di Nakashima Tetsuya ambasciatore del Giappone agli ultimi Oscar, parla un idioletto che miscela la lingua dei nuovi (o seminuovi) media ai classici, non soltanto quelli orientali. Il regista passa per autore pop perché gli piace lavorare molto con i colori, ma questa volta la base del suo film è tutta noir. Il trailer che da un bel pezzo gira su Internet è l’assaggio di un piatto «forte», arricchito da tutte le spezie e le droghe del Male: la pellicola è infatti la trasposizione dell’omonimo romanzo firmato da Minato Kanae, la trentottenne autrice che, con Kawakami Mieko e Sakuraba Kazuki, rappresenta il nuovo corso dark giapponese al femminile. Lo propone ora l’editore Giano con il titolo Confessione (pagg. 270, euro 17,50, traduzione di Gianluca Coci), presentandoci quella che fra non molto verrà etichettata come la versione meno splatter ma più demoniaca, in senso dostoevskijano, dell’ormai quasi classica Kirino Natsuo (Le quattro casalinghe di Tokyo e Real World - targati Neri Pozza - e L’isola dei naufraghi - Giano).
Singolare la genesi del libro. Il primo capitolo, «La sacerdotessa», nacque come racconto, e nel 2007 valse alla Minato il premio per scrittori mistery esordienti. Poi, i germi del Delitto, della Colpa, della Vendetta e del Rimorso si coalizzarono, dando vita a una sequenza di scatole cinesi, nella mente dell’artefice di questa trama tagliente come un bisturi, in cui le voci narranti dei sei capitoli si susseguono come testimoni-imputati di un processo. Si parte quindi con il monologo della «Sacerdotessa», cioè della professoressa Moriguchi che vuol vendicare la figlioletta Manami, uccisa in modo preterintenzionale, in una specie di gioco crudele, da due suoi allievi. Parlando alla classe intera, la Moriguchi rivela che il suo compagno e padre di Manami è malato di Aids... Ecco, la miccia è accesa. Tutti sanno chi sono i due colpevoli, quindi tutti sanno anche la fine che li attende. O forse no. Perché insieme a Delitto, Colpa, Vendetta e Rimorso, un altro grande attore, l’Inganno, recita un ruolo di primo piano. «La martire» Mizuki, compagna di classe dei colpevoli; «L’iperprotettiva», cioè la madre di Nao, uno dei due ragazzini colpevoli, affetto da neurodistonia; «L’indagatore della verità», cioè lo stesso Nao, come molti suoi coetanei vittima della sindrome detta hikikomori che li porta all’autoisolamento nella propria stanza, autentica piaga sociale del Giappone contemporaneo; «L’iniziato», cioè Shuya, l’altro giovanissimo demonio; infine «La predicatrice», cioè di nuovo la prof che chiude il cerchio in un finale comunque «aperto» a ogni terribile soluzione.
Studente modello quanto a rendimento e creatività, ma anche mela marcia della comunità scolastica, Shuya ha fatto di una frase di Delitto e castigo che ha persino infilato in un tema come un fiore all’occhiello, il proprio unico comandamento: «Gli uomini straordinari hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere straordinari». Lui, in effetti, è un tipo straordinario, un genietto, un inventore di macchine pericolose.

I suoi compagni «non si rendono conto che tutte le cose hanno un proprio lato interno», ma il suo «lato interno», quello votato al Male, è un meccanismo infernale, un ordigno a tempo. Esploderà o verrà disinnescato dalla Vendetta e dall’Inganno? A rispondere sarò l’ultima confessione di Confessione.

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