Milano - Li potremmo chiamare «I figli del Gabibbo», a voler cercare un padre per tutti loro potrebbe essere il pupazzo rosso inventato da Antonio Ricci nel 1990. In comune con gli altri Robin Hood del piccolo schermo, picareschi denunciatori di malcostume, soprusi e scandali («Mi sei simpatico. Ti spacco la faccia» era il ritornello del Gabibbo), oltre alle inchieste «giornalistiche» giocate sul registro del paradosso e del grottesco, c’è forse qualcosa di più, «una tipica operazione situazionista, una sovversione mascherata da gioco innocente di bambini» (Aldo Grasso). Le Iene su Italia 1, le ex Iene sparse per le reti (Sortino è sbarcato su La7 e Pif su Mtv), Paolo Calabresi che ogni tanto spunta con le sue trasformazioni, le indagini dei vari capitan Ventosa di Striscia la notizia, le scorribande radiofoniche di Valerio Staffelli con Al vostro posto su Radio24. Il fenomeno ha preso ormai i contorni di un vero genere tv. Ma oltre al tg satirico di Ricci, l’altra fucina da cui sono usciti tutti questi detective con telecamerina è proprio le Iene, altro programma cult nato negli anni Novanta, grande laboratorio per sperimentazioni televisive. Anche una rete light come Mtv ha trovato spazio per le inchieste di Pif, nome in codice di Pierfrancesco Diliberto, autore e protagonista del nuovo Il Testimone. Un segnale che le storie crude, raccontate in presa diretta, calandosi nei personaggi (o tramutandosi in loro), riescono a coinvolgere anche un pubblico piuttosto refrattario all’informazione come quello degli adolescenti (il target di Mtv va dai 15 ai 24 anni).
«Sentivamo l’esigenza di un programma di inchiesta che però avesse un taglio adatto alla nostra rete, leggero anche quando tratta cose molto serie - spiega Alberto Rossigni, responsabile dei palinsesti di Mtv -. Pif riesce ad affrontare la realtà proprio così, con un tono sincero, senza filtri pregiudiziali che invece nel giornalismo “adulto” ci possono essere. È molto diretto, quasi disarmante perché non si pone remore. Ma anche quando è imbarazzante l’interlocutore non se la prende perché si accorge che è sincero. È, potremmo dire, un giornalismo anomalo, perché usa un linguaggio diverso. Ma attenzione, dietro c’è una grande capacità tecnica, una cura straordinaria per il prodotto televisivo».
Il fenomeno di questi «giornalisti anomali» è una questione di linguaggio anche per Alessandro Sortino, ex iena (tra l’altro, giornalista professionista) ora autore di Malpelo (La7), anche lui per nulla affascinato dalla retorica del giornalismo libero (quello degli outsider) contro il giornalismo piegato al Potere (quello degli organi tradizionali). «Non la vedo come una competizione, la vera differenza sta nella forma - dice Sortino -. Non lavorando nelle testate si possono sperimentare dei linguaggi. Il lavoro che noi facciamo è far andare di pari passo le immagini e il testo. Nei tg tradizionali si utilizza un parlato che non si combina perfettamente con le immagini mentre secondo me la tv è far parlare le immagini. Il giornalista non è un mediatore tra telecamera e realtà, ma deve entrare direttamente in scena. Questo stabilisce un rapporto di maggiore fiducia con il pubblico».
Con Sortino all’inizio ha lavorato Claudio Canepari, autore, produttore e regista tv (ha scritto recentemente delle docufiction sulla mafia per la Rai) che insieme a Davide Parenti ha dato vita alle Iene, e che poi ha sviluppato il filone «sociale», sfruttando la capacità mimetica di Marco Berry con Gli Invisibili, storie di senza tetto. «Il comune denominatore di questi programmi è il linguaggio estremamente veloce e il fatto di avere delle storie potenti, cose che urlano, perché in tv se vuoi farti ascoltare devi urlare - spiega Canepari -. La bravura sta nel rendere popolari temi anche impegnativi o tristi, come abbiamo fatto noi con il mondo dei senza tetto. Bisogna considerare che la soglia di attenzione del telespettatore in tv è di pochi minuti, perciò bisogna fare un prodotto fast food, purché sia un fast food dove si mangia bene».
I figli del Gabibbo però a volte si mescolano, contaminano il giornalismo «serio». Come il format ormai abusato delle doppie interviste, modulo copiato anche dai giornali. Un gioco di rimandi che funziona anche (o forse soprattutto) al contrario, perché spesso le inchieste dei Gabibbi nascono da inchieste e articoli di giornale, riprese e «interpretate» a mo’ di racconto in prima persona. Due stili diversi, in fondo, che fanno fatica a fondersi.
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