«Bibi s’en-va, bébé viendra!». Quello di gettarsi lo zaino sulle spalle e di partirsene verso la gloria, lasciando una innamorata in lacrime e incinta, è un vecchio orgoglio delle soldatesche. \ «Bibi s’en-va, bébé viendra!». Bibi è il guerriero per eccellenza. Il soldato allo stato puro. Può chiamarsi Bianchi, Martinez, Bernard, Müller, Nastasescu, Johansson o Molnar. Un nome vale l’altro. La nazionalità è un particolare trascurabile. Bibi è soltanto se stesso. Ha un solo ideale: combattere. Non importa contro chi, dove, quando e perché, ma combattere. Il suo codice ha soltanto due articoli, ferrei, tatuati nella coscienza, immutabili:
– Non si abbandonano mai sul terreno, cascasse il mondo, i compagni feriti.
– Gettarsi nella mischia per primi, essere gli ultimi ad uscirne. \
Tutto il resto, miserie burocratiche, preoccupazioni puerili, squallidi espedienti del trantran quotidiano, Bibi lo ha lasciato laggiù, a Marsiglia, dietro il muraglione del Fort Saint-Nicolas. Un muraglione alto otto metri, bianchiccio come il mandorlato di Cagnes, trafitto da feritoie tenebrose. Poco verde si affaccia qua e là. Al centro, il tratteggio verticale di un cancello, vigilato da una sentinella impassibile e dura, in chepì bianco. In alto, sul cancello, chiaro su fondo scuro, due parole spoglie, affascinanti: Légion étrangère. \
Migliaia di Bernard, Müller, Bianchi, Martinez e Johansson sparirono, un giorno, dietro il muraglione di Saint-Nicolas, per uscirne trasformati in altrettanti Bibi.
Sono 130 anni che «Marianne» manda all’inferno i figliastri per risparmiare i figli. \
Creata da Luigi Filippo (su suggerimento di Guizot) per soddisfare le ambizioni coloniali e militaristiche di una grossa borghesia abituata, dal canto suo, a impugnare soltanto il coltello e la forchetta per attaccare una bécasse au fumet, la Légion étrangère balzò al vertice della sua gloria in questo dopoguerra. Ingrossò, si inebriò sotto una pioggia di croci, di citazioni, di onori e di attestati. Ma quella «grande parata» era il principio della fine. L’euforia che precede la morte. Il vecchio impero borghese stava agonizzando. La sua fine era segnata. Nessuno ricordava più le favole di Pierre Loti e di Pierre Benoit, le iridescenze letterarie del «legionario» Blaise Cendrars, gli eroi barbuti e bruciati dal sole, senza ricordi e senza speranza, che Albert Londres aveva descritto nelle sue famose corrispondenze da Sidi-Bel-Abbès e da Colomb-Béchar. Il lungo romanzo della Légion era arrivato all’ultimo capitolo.
Ora il libro sta per chiudersi. Messo sotto chiave Challe, col suo umiliato contorno di ribelli, Charles De Gaulle ha cominciato a liquidare gli étrangers. I «berretti verdi» del 1º reggimento paracadutisti, orgoglio della Legione, han già cessato di esistere. De Gaulle ha sciolto il reggimento il 28 aprile. Mancavano soltanto due giorni al 98º anniversario della leggendaria battaglia di Camerone.
Il 30 aprile 1863, in un remoto angolo del Messico, dopo un lungo tramonto infuocato, la 3ª compagnia del 1º battaglione, 62 legionari in tutto, comandati dal capitano Danjou, fu attaccata da circa 3.000 messicani. La zuffa si protrasse per alcune ore, furibonda, sotto le stelle. Cadde, con un supremo grido di incitamento, il prode Danjou, levando al firmamento la mano artificiale applicatagli al posto di quella persa quattro anni prima in combattimento. \
L’anniversario di Camerone divenne la festa annuale del Corps légionnaire. La mano «en cuir et charnières métalliques» del capitano Danjou, tornò a levarsi puntualmente, ogni 30 aprile, sui chepì bianchi delle reclute e degli anziani barbus, per incitarli a imprese sovrumane. Ma il generale De Gaulle, assillato dalle intemperanze e dalla petulanza degli ultra, non ha più tempo da perdere in celebrazioni e cerimonie. I paracadutisti del 1º reggimento hanno lasciato al deposito la loro bandiera tintinnante di decorazioni, destinata a pendere floscia da una parte del Musée Militaire, senza ricevere l’ultima benedizione ortopedica di Danjou.
La smobilitazione della Légion, ammesso che De Gaulle sia davvero deciso a portarla in fondo, senza pentimenti né mezze misure, non sarà facile né sbrigativa. \
Non basta. Alcune centinaia di barbus, forse un migliaio in tutto, per lo più subalterni e sottufficiali, superstiti della «vecchia guardia», attaccati alle tradizioni, mummificati dal regolamento, sottomessi a qualsiasi ordine superiore, per quanto bislacco e contraddittorio, rappresentano l’unico manche sûr, l’unico “manico” al quale lo Stato maggiore si possa attaccare, senza tema di scottarsi, per maneggiare la Legione. Attorno ai barbus, in maggioranza prussiani, polacchi e ungheresi, molti dei quali raffermati sette volte (35 anni di servizio), ondeggia, nella schiacciante proporzione da uno a quaranta, la gran massa dei giovani, alla loro prima o seconda «ferma».
«Ces gars, mon ami, sont pas mal!», disse, mesi fa, il sergent en chief Kurtz, del 3º reggimento (arruolato nel 1928), al giornalista parigino che lo intervistava a Bel-Abbès. «Pas mal, en général. Ils ont seulement un défaut. Quelque fois, on a l’impression qu’ils pensent!» («Bravi giovanotti, in generale! Hanno soltanto un difetto. Certe volte si ha l’impressione che pensino!»). È grave. Il generale De Gaulle, accingendosi a liquidare una volta per sempre la Légion, non può trascurare la preoccupante segnalazione del sergente maggiore Kurtz.
Al tempo del grand diable Rollet (il cui manichino modellato in cera sta tuttora seduto alla scrivania di palissandro che il leggendario comandante usò per circa vent’anni, a Sidi-Bel-Abbès) i gars de la Légion avevano certamente tutti i difetti di questo mondo, meno quello di pensare.
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