
Prima che Carlin Petrini pensasse quello che ha realizzato, c'era un suo precursore, che si chiama Tonino Guerra, artefice di meravigliose invenzioni, che riusciva a immaginare città a misura di poeti o di bambini. Si possono ancora ammirare le sue coloratissime stufe di ceramica, a Pennabilli, suo luogo di elezione, e le sue opere d'arte, fantasiose e accese, che adornano il suo ristorante a Sant'Arcangelo di Romagna.
La Romagna, appunto. La Romagna non è un luogo di rinomati e celebrati vini, come lo sono il Veneto o il Piemonte o la Toscana, ma del Sangiovese, un vino quotidiano, un vino povero e gentile. Con quello stesso nome, al femminile - che sembra un parto del genio di Fellini, anzi ce lo si immagina proprio come una «Gradisca» di Amarcord («io mi ricordo», in dialetto romagnolo) di Fellini - Tonino Guerra ha battezzato questo ristorante insieme a Manlio Maggioli oltre trent'anni fa. Lo ha pensato come luogo in cui lo spirito più alto dell'arte, Guido Cagnacci in testa, dei libri, della pura poesia, travasasse in piatti e vini della tradizione romagnola.
Come se mangiare e parlare e vedere, come se il bello e il buono, socraticamente, si sposassero in uno stesso gesto. Anche io ho fatto mia questa idea, quando, sindaco di Salemi, nel 2009, ho creato un assessorato unico «alla cultura e all'agricoltura», che avrebbe avuto come ideale interprete proprio Tonino Guerra. Insomma, la parola e il gesto di Tonino Guerra sono legati alla verità delle cose, sono poesia. Ma per dare verità alla parola, per restituirle l'aderenza alle cose, la trasparenza di qualcosa di originario, occorreva, dopo Omero, dopo Dante, dopo Petrarca, dopo Ariosto, dopo Tasso, dopo Leopardi, ridarle verginità. Il linguaggio non può essere un linguaggio solo aulico. L'italiano, nella poesia d'amore, è consumato: Petrarca ha creato un canone, e centinaia di poeti petrarcheschi hanno consumato le stesse parole.
In che modo le parole si possono riverginare? In un unico modo, pensandole in una lingua parlata, ma non scritta. Non a caso abbiamo avuto una storia letteraria che, a fianco di Manzoni e della sua lingua, come quella che mi insegnavano i miei genitori, risciacquata in Arno e diventata italiano puro, contempla il dialetto, come lingua viva, del mondo popolare.
Rispetto a quella lingua artificiale che prima Ariosto, poi Tasso con la revisione del classicista padovano Sperone Speroni, e ancora Manzoni, epurano dai dialettismi, dai lombardismi, possiamo ascoltare uno dei grandi poeti che portano la lingua a risuonare come voce interiore, il milanese Carlo Porta. Carlo Porta significa letteratura alta in lingua bassa. Segue, in quel filone, Vittorio Imbriani, e, più tardi, Franco Loi. Complice, forse, il potere economico e culturale, della Lombardia, il dialetto lombardo diventa lingua.
Analoga cosa possiamo dire della lingua o dialetto veneto: Venezia era repubblica, capitale, così che la lingua veneta, in poesia come in pittura, non è un dialetto, ma lingua. E tra i più grandi poeti del Novecento, che hanno scritto solo parole d'amore, come Petrarca, ce n'è uno che ha anche collegamenti con Torino Guerra, e si chiama Giacomo Ca' Zorzi, detto Giacomo Noventa. Noventa scrive meravigliose poesie in dialetto veneto, dove quanto si legge in sette secoli di poesia, fino a Quasimodo, fino a Luzi, viene pensato e detto in lingua veneta. Giacomo Noventa è un classico.
Arriviamo a Pasolini, contemporaneo di Tonino Guerra, che apre la questione settentrionale della lingua friulana. A Casarsa, in Friuli, Pasolini consacra nei suoi primi versi quella lingua, e intanto tenta di far riemergere lingue affini, che sono quella triestina di Virgilio Giotti e quella di Grado di Bagio Marin, uno dei maestri di Claudio Magris, tutti poeti di prima fila nella poesia italiana.
Insomma, la forma più vitale della poesia del Novecento, se escludiamo le canzoni, che hanno surrogato la poesia fallita di molti poeti in lingua aulica, è quella del dialetto. Non percorriamo l'intera penisola, ma ci fermiamo a Roma, dove alta poesia in una lingua che è competitiva con l'italiano è quella di Giovanni Gioachino Belli, e dopo di lui, di Trilussa. Che cosa rimane ai margini, come se fosse una lingua dei poveri, una lingua dei contadini, una lingua che non ha la dignità di una legge che la riconosce tale, come è accaduto per la lingua friulana? La lingua romagnola, la lingua di mia madre, nata Santa Maria di Codifiume, in bilico tra Ferrara e Ravenna. E dico romagnola, prima ancora che emiliana. E, come un profeta, ascoltando vaticini che vengono dagli inizi del Novecento, Tonino Guerra decide di scrivere la sua letteratura in dialetto romagnolo, che non è ancora lingua. Un dialetto che io non ho potuto capire fino in fondo perché la cultura dei miei genitori, una romagnola, appunto, l'altro veneto, vedeva la campagna contrapposta alla città, il mondo contadino contrapposto a quello borghese, e il dialetto come fattore inquinante della lingua. Per cui io non potevo giocare con i miei compagni, figli di muratori e contadini, e non potevo parlare il dialetto, perché era segno di ignoranza.
Oggi è esattamente il contrario. Il dialetto riscatta una lingua consumata da un abuso di cattive parole che sono diventate poi le più orribili di tutte, quelle della burocrazia e delle leggi: «fruizione», «sinergie», «indagini conoscitive», «restauri conservativi». Tutto ciò ha inquinato e impoverito la lingua alta che è diventata la lingua della burocrazia mentale.
Qual è la lingua vera, allora? La lingua di chi parla la lingua di sua madre. «Madre» è la terra dove è nato, il dialetto dà identità e radici, e, se lo Stato non la riconosce come lingua, saranno la poesia e la letteratura che la confermeranno per tale.
Tonino Guerra che quest'anno, a marzo, avrebbe compiuto 105 anni, riscatta la lingua involgarita, riscatta il dialetto romagnolo portandolo nell'universalità del cinema di Fellini e della sua poesia. Ma mi restituisce anche la verità di mia madre, che mia madre occultava, e mi restituisce, almeno un po', a me stesso.
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