Alla soglia dei cento anni, che compirà il 21 dicembre, Diana Athill mette nero su bianco la sua saggezza, con una scrittura allegra e disarmante. Disarmante è la sincerità con cui ricorda quel figlio che aveva in pancia, e che ha perduto. Disarmante è come confessi di essersi sempre considerata «l'Altra donna», quella che non aspirava al matrimonio, ma neppure a sfasciare quelli altrui; tanto da convivere, per qualche anno, con l'amante del suo amante (poi diventata una delle sue migliori amiche). Disarmante è la delicatezza con cui ripercorre il rapporto tormentato con la madre (che non voleva mettesse in piazza i fatti di famiglia) e gli occhi di lei, che la riconoscono in punto di morte.
Tutto questo Diana Athill, signora dell'editoria britannica, che dopo la laurea ad Oxford (nel '39...) e un impiego alla Bbc durante la Seconda guerra mondiale ha lavorato per cinquant'anni fianco a fianco con John Updike, Philip Roth, Margaret Atwood, V.S. Naipaul, Mordecai Richler e Jean Rhys, lo racconta in forma di ricordi nel libro Viva! Diario fiorentino (Bompiani); un volume composto dal diario, scritto su suggerimento della madre, della vacanza fatta con la cugina Pen in Italia, subito dopo la fine della guerra, e poi da una serie di brevi memorie. In queste ultime Athill non parla tanto degli autori con cui ha lavorato, quanto delle «lezioni» che la vita le ha insegnato: per esempio, che bisogna rifuggire il romanticismo e la possessività («Entrambe le cose possono essere pericolose, e perfino letali se combinate con il sesso»); che la sedia a rotelle non è umiliante («Non c'è lusso più grande che farsi spingere in giro per le sale di una celebrata e gremitissima mostra d'arte»); che «sono pochi gli eventi della mia vita che sono stata io a decidere»; che «cose di fondamentale importanza» come l'istruzione, il lavoro, i luoghi sono «capitate per caso» e invece «la mia decisione di trasferirmi in una residenza per anziani non è proprio la sola che io abbia preso autonomamente, ma di certo è la più grande».
Per farlo, Athill ha dovuto abbandonare tutti i suoi libri, tranne i pochi che ha potuto portare con sé. Questa donna, che ha lavorato con i grandi del Novecento, ha scelto James Boswell (i diari) e Lord Byron (le lettere).
Perché? Perché Byron «scriveva come parlava... Arguto, spesso irriverente, buono e generoso, a volte ridicolo nella sua vanagloria, a volte sagace, sincero, sempre intensamente vivo, così è l'uomo che ha scritto quel meraviglioso poema che è Don Juan».
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