«Il Diavolo è atterrato», secondo uno dei titoli più efficaci anche se più prevedibili che la stampa popolare newyorkese ha riservato alla non gradita visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Adesso sta per decollare, dopo aver «toccato» tutti i suoi obiettivi meno uno, con risultati prevedibilmente magri almeno da un punto di vista occidentale. Non l’hanno lasciato visitare il Ground Zero, quello che resta della strage terroristica di sei anni fa a Manhattan; però ha potuto, naturalmente, parlare all’Assemblea generale dell’Onu e, in più, tenere una conferenza-dibattito alla Columbia University, ricevere una delegazione di eccentrici ebrei «antisionisti», farsi intervistare da una importante rete televisiva. Insomma portare a termine quello che molto probabilmente era il vero obiettivo, la vera natura della sua «spedizione»: un tour di public relation, che non necessariamente si identifica con una raccolta di consensi: quello che più conta, forse, è comunque quello cui lui di più tiene, un successo di attenzione. Non ha incontrato nessun esponente di rilievo del governo Usa (Condoleezza Rice lo ha schivato ostentatamente), non si è trovato nella stessa aula del Palazzo di Vetro con George Bush, il che permise ad Ahmadinejad di annusare un «profumo di zolfo» nella scia del presidente americano.
Secondo alcuni esperti Usa di affari iraniani, ha avuto anche stavolta più di quel che si merita: l’accoglienza giusta sarebbe dovuta consistere in meno invettive e meno attenzione. Se così non è stato è perché l’America, e l’Occidente in genere, continua a farsi un’immagine sbagliata del sistema politico di Teheran. Arriva a New York il «presidente dell’Iran» e i più si immaginano un uomo con gli stessi poteri che ha Bush o magari a Parigi Sarkozy. Magari con l’aggiunta del Comando supremo delle Forze Armate. In Iran le cose non vanno così, la «Repubblica islamica» è presidenziale solo di nome. Anche se Ahmadinejad è stato eletto dal voto popolare, egli non incarna il potere, che continua a risiedere nelle mani del vero uomo forte, l’ayatollah Ali Khamenei, cui non deriva dall’investitura popolare ma come logico in una teocrazia, dalle gerarchie religiose. Il ruolo di Ahmadinejad sarebbe dunque, secondo questi esperti, più simile a quello del primo ministro egiziano (in una Repubblica presidenziale autocratica) o del primo ministro francese in un Paese democratico in cui i massimi poteri sono nelle mani dell’Eliseo. In termini dell’America «corporate», sempre lui sarebbe appunto un «president», non un «Chairman of the Board». Dunque con poteri reali sulla conduzione quotidiana degli affari di Stato e una funzione di megafono, portavoce, banditore delle vere decisioni politiche prese dal leader supremo e dagli altri ayatollah. Public relations, oggi nel «mercato» mondiale, ieri nella politica interna. Qualcuno si ricorda ancora di una campagna di Ahmadinejad per permettere alle donne di andare allo stadio che non ebbe successo e che è stata rapidamente dimenticata da quando il candidato è diventato presidente. Qualcuno dubita comunque che Ahmadinejad sia, nel contesto di Teheran, il vero estremista. Lo è diventato, secondo gli esperti, nelle questioni morali e religiose, in campo economico i «duri» sarebbero gli altri, gli ayatollah, che condurrebbero anche la politica estera. È uno dei motivi per cui una parte degli «specialisti» Usa sono scettici sulla possibilità che un abbattimento di Ahmadinejad possa aprire la strada a una «apertura». Ai vertici dello Stato iraniano continuerebbero a prevalere i dogmatici, che difendono fra l’altro i loro interessi di casta e non hanno nessuna intenzione di incrinare il proprio monopolio modificando le relazioni del Paese con l’estero, tanto meno con gli Stati Uniti. Una «liberalizzazione» sarebbe dunque impensabile fin che resterà in piedi l’attuale struttura di regime. Qualunque cosa accada a Mahmoud Ahmadinejad. Potrebbe essere una guerra a breve termine.
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