Dirty Dozen, il jazz è servito

Una «sporca dozzina» meno quattro, fa un «otto» davvero speciale. E’ un otto a tutto tondo quello della «Dirty Dozen Brass Band», «sporca dozzina» di otto elementi che con i suoi inseparabili ottoni porta in giro per il mondo da circa un trentennio la febbre irresistibile del «New Orleans», inteso come musica, che fa tutt’uno con l’anima della città della Louisiana dalle radici profondamente francesi. Definire il «New Orleans» un genere musicale sarebbe davvero iperbolico, oltre che scorretto. Ma quando si pronuncia quel nome, chissà come mai capiscono tutti di cosa si sta parlando. Un qualcosa che sfugge alle definizioni correnti, che aborre cancelli e serragli non solo musicali, che si esprime e ritrova la propria ragione d’essere in un melange di stili, colori e sapori da toccare, tanto sono realistici, davvero unico e inconfondibile. Quella frammistione e commistione che gli otto della «Dirty Dozen» - il cui nome è un dichiarato omaggio alla «sporca dozzina» dell’omonima, mitica pellicola bellica del 1967 di Robert Aldrich -, guidati dai leader Gregory Davis (tromba e voce) e Kevin Harris (tenor sax), interpretano così bene, e che stasera potremo ritrovare all’Arena (ore 21) sul palco del Milano Jazzin’ Festival.
Per chi non è mai stato a New Orleans, non ne ha «toccato» materialmente suoni, odori e sapori, gustarsi le note della «Dirty Dozen» è un po’ come fare una repentina full immersion nella città del Mardi Gras (martedì grasso francese, come si chiama il locale carnevale). Una città speciale in tutto, dove lo storico quartiere francese si allea coi grattacieli nel tentativo di stemperare l’insistente atmosfera subtropicale che ti avvolge nell’umidore del suo abbraccio totale. E, sullo sfondo, il lento corso del «padre delle acque», quel Mississipi che si getta di lì a poco, lento e inarrestabile, nel Golfo del Messico, dopo essersi portato addosso, nel suo lungo corso verso Sud, il destino di un intero Paese.
New Orleans, dicevamo, città francese, città americana, ma soprattutto città nera, perchè questo è il luogo che per primo ha raccolto i neri provenienti dalle coste dell’Africa occidentale, che hanno contribuito in modo così determinante alla nascita e alla crescita della musica jazz.
La «Dirty Dozen» è un po’ la summa di tutto questo. Fondata nel 1977 da Benny Jones, che mise insieme alcuni membri della Tornado Jazz Band, è in un certo senso responsabile di aver rivoluzionato lo stile tipico delle brass band, incorporando funk e bebop nella tradizione del «New Orleans», al punto da tracciare una direttrice per il futuro. Ma, forse anche un po’ paradossalmente, a dare la stura al successo interno del gruppo è stata proprio la vecchia Europa. Dopo il tour del 1984 promosso da George Wein, la popolarità della band decollò anche negli Usa, con il lancio nei jazz club newyorkesi e la successiva «spedizione» in California. Dopo il set al Festival di Montreux dell’86, Mardi Gras at Montreux, prende il via una produzione discografica scandita da ritmi regolari, a cominciare da Voodoo dell’87, che ospita feature di Dizzy Gillespie e Branford Marsalis. Nel 1998, dopo uno iato di cinque anni, arriva Ears To the Wall. Ma bisogna attendere il 2004, con Funeral for a Friend, per assistere a una specie di ritorno alle origini della band: è un affresco di un tipico «funerale in musica», ambiente originario e originale del «brass band style».

Poi, nel 2006, l’ottimo What’s Going On, la versione da parte dell’ottetto del capolavoro del grande Marvin Gaye del 1971: tributo completo e ispirato e concreta risposta del gruppo alle devastazioni dell’hurricane Katrina, che sconvolse la «Perla della Luoisiana» soltanto l’anno prima.

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