Le disperate corse in galleria e chi in galleria non poteva andare

Le disperate corse in galleria  e chi in galleria non poteva andare

Ho molto apprezzato l'articolo «Resistenza e omicidi privati» di Olimpio Parodi, che fa parte di talune pagine del «Giornale» che non butto via, e le leggo alla prima occasione (esempio: la domenica).
Una stolta carneficina, come ce ne furono a quei tempi, tra chi stava da una parte e chi dall'altra, e viceversa. Dubito che quei «partigiani» assassini siano stati individuati e puniti come avrebbero meritato. Forse Olimpio Parodi può confermarcelo.
Questi ricordi hanno immediatamente portato alla mia memoria la mia tragedia conseguente alla guerra.
Avevo undici anni e non di rado, appena tornato a casa da scuola, saltavo pasto perché, all'ululare delle sirene di allarme aereo (vedi: ponte di Recco), col cuore in gola dovevamo, io e mia madre, correre lungo i binari della ferrovia e rifugiarci nella galleria Priaro, assieme agli altri abitanti della zona.
Ricordo bene i treni merci che, pur rallentando di molto in galleria, mi passavano a poca distanza dal corpo, se non avevo la fortuna di infilarmi nelle garitte-rifugio predisposte a notevole distanza una dall'altra. Gli anziani e gli invalidi, e pure molti uomini in età lavorativa, quelli no, rimanevano in casa ad attendere la loro sorte, i primi per difficoltà di movimento (ascensori, all'epoca, nella mia cittadina, neppure uno), i secondi per non essere individuati e rastrellati dai tedeschi.
Ricordo benissimo che appena dalla finestra si scorgevano ronde naziste o fasciste, mio padre si nascondeva in un ripostiglio il cui accesso avevamo dipinto come il muro, e che, per maggior sicurezza, ogni volta coprivamo con un armadio. E poi, purtroppo, ricordo, mio padre, nell'estate 1944, quando, sfollati a Pannesi di Lumarzo, per essersi trovato sotto un bombardamento di Genova proprio il giorno in cui era andato, con mille difficoltà, a ritirare il suo stipendio di maestro al Provveditorato (allora non c'erano le rimesse bancarie...), aveva contratto una itterizia non o mal curata, poi sfociata in setticemia.
Lo ricordo per l'ultima volta sulla barella di fortuna (materasso su scala da muratore) mentre lo trasportavano su per una «creuza» da quella casetta di campagna vicino alla Madonna del Bosco ove abitavamo, verso la «sospirata» salvezza, che non arrivò.
Ricordo le «carrozzette», due assi con cuscinetti a sfere a mo’ di ruotine con un paio di tavolette inchiodate, che servivano per il trasporto di cibarie e vettovaglie, che in salita si doveva tirarle a fatica e in discesa le dovevi frenare... a piede.
Ricordo la miseria nera di quei tempi, Recco rasa al suolo, e tutto il resto.

Oggi leggo di quei giovani pieni di anellini ed altro infilzati nel corpo, un paio di telefonini tuttofare in tasca, che si pestano una volta sì e l'altra pure, dentro e fuori le discoteche, che la sofferenza se la cercano per ignoranza o noia, e, anche se tutti mi inquadrano come «ottimista», mi viene un dubbio: l'umanità va verso il meglio, o verso il peggio?
Con tanti cordiali saluti.

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