Il "Dolore e furore" della Genova dilaniata dagli Anni di piombo

Sergio Luzzatto ricostruisce la storia del terrorismo sotto la Lanterna. Perché fu nelle fabbriche del capoluogo ligure che le Br persero la loro guerra

Il "Dolore e furore" della Genova dilaniata dagli Anni di piombo

Un titolo azzeccato, Dolore e furore, per la storia delle Brigate rosse scritta da Sergio Luzzatto per i tipi di Einaudi. Il poderoso e ponderoso volume, sono 704 pagine, più la corposa prefazione e gli apparati, parte dalla Genova degli anni Sessanta per tracciare un percorso del terrorismo rosso in Italia di affascinante complessità. Quello che accade sotto la Lanterna resta sempre al centro della scena, viene esaminato con acribia certosina attraverso un numero enorme di documenti. Ma serve a spiegare l'intera storia del Paese durante gli Anni di piombo.

Spiega Luzzatto come Genova sia stato il vero laboratorio dove sono state messe alla prova le folli formule dell'alchimia politica che i terroristi avrebbero voluto imporre in tutto il Paese. E in quel laboratorio, al prezzo di tantissimo sangue, si sono rivelate per quello che erano: una pietra filosofale che trasformava tutto in piombo e sangue. Non per niente la classe operaia genovese l'ha rispedita al mittente.

Ma andiamo con ordine. Luzzatto incrocia i fili di molte esistenze, a partire da quelle di Riccardo Dura e di Guido Rossa. Da un lato il capo della colonna genovese delle Brigate rosse, dall'altro il delegato sindacale dell'Italsider che si batte per tenere la propaganda terrorista fuori dalla fabbrica e diventa così la «spia berlingueriana». Queste due vite si incrociano in maniera definitiva il 24 gennaio 1979. Le Br avevano deciso di gambizzare Rossa, il commando è composto da tre persone: Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi. Guagliardo spara effettivamente alle gambe, Dura invece spara al cuore, spara per uccidere. Sul perché esistono solo teorie. Su quello che è successo dopo esistono delle certezze. La classe operaia della città, persino i rossissimi camalli, passò da un pilatesco «né con lo Stato né con le Brigate rosse» a marciare compatta contro il terrorismo. Era la fine di ogni spazio politico per le Brigate. Se ne resero conto anche molti dei membri della colonna genovese, alcuni presero a muso duro anche il loro pericolosissimo capo: «Questa è stata una cazzata troppo grossa, e la pagheremo, la pagheremo! La pagheremo troppo».

Rimaneva a quel punto solo un disperato e residuale spazio militare. Per quanto la colonna genovese fosse ferrea nella disciplina e Dura bravissimo a sfuggire alle forze dell'ordine, dove potesse condurre lo si vide bene la notte del 28 marzo del 1980, sempre a Genova, in via Fracchia. Grazie alle informazioni fornite dal militante Patrizio Peci, arrestato nel febbraio 1980 a Torino, i carabinieri del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa poterono individuare questa base terrorista, piazzata in un insospettabile appartamento e organizzare un'irruzione notturna. Scoppiò un violentissimo conflitto a fuoco. Alla fine sul pavimento coperto di sangue rimasero quattro terroristi: Riccardo Dura, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, Annamaria Ludmann. La colonna genovese era stata decapitata. Ma ormai era già stata sconfitta nei fatti.

Ma la narrazione di Luzzatto va oltre questa traiettoria, ricostruisce la complessa filiera di legami personali che circondava Dura. Utilizza la biografia di Dura e di chi ha condiviso il suo progetto politico follemente rivoluzionario per ottenere, sommando piccolissime tessere, il quadro d'insieme di un'epoca.

Guardando al percorso di questo terrorista, nome di battaglia «Roberto», si trovano pochissima classe operaia e moltissimi cattivi maestri. I soldi in casa sua non mancano ma con la madre ha un rapporto pessimo tanto che, ragazzino, dopo due passaggi in manicomio, viene cacciato sulla nave Garaventa, sorta di carcere minorile galleggiante. Non ne uscirà un ragazzo migliore. Semmai il classico outsider che diventerà la manovalanza perfetta per i rivoluzionari da università che tanto preoccupavano il Generale Dalla Chiesa. E così nel libro viene dato largo spazio al lato colto del terrorismo, ovvero a Enrico Fenzi e Gianfranco Faina. Costruirono un brodo di coltura potente che trascinò molti fuoricasta come Dura.

Per usare le parole di Luzzatto: «Attraverso la tragica ballata di Riccardo Dura, dei suoi vari compagni e dei suoi diversi professori, ho voluto studiare il problema dell'eccezionalità italiana nell'effervescenza rivoluzionaria del post-Sessantotto». Un'eccezionalità terribilmente sanguinaria, che di nuovo Luzzatto riassume così: «Il terrorismo rosso era stato, in Italia, il prodotto diretto di una sparuta avanguardia marxista-leninista; ma era stato anche il prodotto indiretto di una più diffusa cultura variamente anti istituzionale, terzomondista, operaista, nichilista, oltranzista, che a partire dagli anni Sessanta aveva svillaneggiato le politiche riformatrici del centrosinistra, aveva irriso le garanzie giuridiche dello Stato di diritto, aveva venerato l'idolo della violenza rivoluzionaria come levatrice di progresso».

Per ricostruire questa filiera bisognava scendere a livello della microstoria, vivisezionare, per quanto lo rendono possibile i documenti, esistenze e ambienti. Dolore e furore fa proprio questo, calandosi nelle aule universitarie e nei quartieri popolari di Genova.

Il risultato è un affresco doloroso della città che col rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi, avvenuto a Genova il 18 aprile del 1974 (cinquant'anni fa) inaugurò la lotta armata delle Br contro lo Stato. E che paradossalmente è stata la meno studiata rispetto al brigatismo.

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