In amore li chiamano colpi di fulmine. Nella vita di Umberto Orsini si trattò sostanzialmente di un inciampo ma rappresentò quella sterzata che a vent'anni cambia un futuro già scritto. E oggi, superate le nozze di diamante con il palcoscenico, guarda al passato con un sorriso che non odora di rimpianto. E se è il nume tutelare del teatro italiano, ebbene lo deve a un gruppetto di colleghe bizzarre di uno studio notarile nella grigia Novara anni '50. Avevano avuto l'occhio lungo, come solo certe donne hanno. E intuirono che quel giovane affascinante aveva ben poco da spartire con rogiti e atti. Lo sorpresero con il tiro mancino più benefico che si potesse concepire. Iscrissero quel ragazzo, poco più che ventenne, all'Accademia. E siccome quello che nessuno gli dovette insegnare furono puntiglio e rigore, Orsini esordì a 23 anni all'Eliseo di Roma. Chiamiamolo caso. Chiamiamolo destino. Qualunque fosse di queste due bestie, però era attentissima e il 2.3, ovvero il 2 marzo, quando il sipario calava su Il costruttore Solness giunse il decreto sul coronavirus. Teatri chiusi. La carriera s'interrompeva dove aveva visto la luce.
In mezzo sei decenni e spiccioli
«Ho iniziato qui nel '57 con Il diario di Anna Frank. Spero di non aver chiuso ora. Soprattutto così».
La consideri una sospensione.
«Mi auguro di vedere altre repliche ma la situazione è grave. Se tutto va bene, si ricomincia a ottobre».
Pessimista
«Non bisognerà ricostruire solo industrie. Senza cure, chi si abbonerà più Cinema e teatri pagheranno questa crisi a caro prezzo. E l'azienda dello spettacolo ha un numero impressionante di dipendenti».
Azzardando una cifra
«Siamo intorno a 85mila tra scenografi, costumisti, montatori, artisti, amministratori. E, psicologicamente, prima che la gente torni in luoghi chiusi, passerà molto tempo».
Però ci sarà voglia di reagire.
«Speriamo di saper sconfiggere la diffidenza».
Che cos'è per lei la malattia.
«Qualcosa di cui l'uomo ha paura, soprattutto chi è anziano come me. Nessuno è eterno. Però io, con la morte, ho una certa dimestichezza».
In che senso, perdoni.
«In teatro sono andato all'altro mondo una ventina di volte».
Racconti.
«Ho provato modi diversissimi. Un colpo di pistola. Il veleno. Uno strangolamento. Un duello. L'ultima sera, nei panni di Solness, sono perfino caduto da una torre. Però la polmonite non l'ho mai presa».
Giriamola così, se è morto una ventina di volte vuol dire che altrettante è risorto.
«Quando cala il sipario resuscito magnificamente. E vado a prendermi gli applausi. È l'affascinante differenza tra finzione e realtà».
Già, il successo.
«In Italia non è facile essere sempre sulla cresta dell'onda. Oggi sono un attore che si esibisce su piazze importanti e detiene un potere contrattuale mai avuto prima».
Che cosa intende esattamente.
«Ogni anno devo scegliere un lavoro che sia competitivo e piaccia a un pubblico vasto. Responsabilità, insomma. E una volta non le avevo».
Ruolo diverso rispetto al cinema.
«Dietro le quinte mi sento più protetto. Scelgo. Decido. Invento. Ho più autonomia perché ho potere contrattuale. Ecco il vero sold out».
Il titolo della sua autobiografia.
«Il teatro pieno è un concetto oscillante. Si può passare di moda, mostrare i segni della vecchiaia».
Il tempo lascia sempre tracce.
«E il fisico conta molto. A vent'anni le ragazzine mi rincorrevano, questo era il termometro della celebrità. Poi si acquistano capacità che il pubblico riconosce benissimo».
A bellezza subentra abilità.
«E specializzazione. Oggi ci sono parti che so fare io e pochi altri».
Nostalgia di gioventù
«Ma no neanche tanto. Vivo alla giornata, ogni giorno mi reinvento. Vivo il presente e non la malinconia del passato».
Che tipo era Umberto Orsini ragazzo?
«Un giovane di belle speranze ma senza vocazione da attore».
Le avevano apparecchiato una carriera da notaio.
«Leggevo bene gli atti, però».
Però.
«Però le mie colleghe dello studio mi hanno iscritto all'Accademia. Stavo cominciando a frequentare l'università a Milano. Giurisprudenza».
E intanto lavorava.
«Come praticante per risparmiare tempo e acquisire professionalità».
Una strategia precisa.
«Sono pragmatico. Quando decido di fare qualcosa, cerco una base per svolgere al meglio il mio lavoro. Lo studio notarile supportava esami universitari verso una professione, l'Accademia preparava a recitare».
E oggi, ripensando all'Orsini notaio, le viene un sorriso o pensa di aver sbagliato strada?
«Devo ammettere che non mi ci vedo. Ho avuto una vita abbastanza spericolata e i panni di un garante delle norme, murato in un ufficio, mi vanno un po' strettini».
Allora perché ci è andato?
«Sono cresciuto in una famiglia normale. Mio padre aveva un ristorante e mia madre lavorava in cucina. Hanno cercato di offrirmi un trampolino di prestigio, facendomi uscire da tessuti familiari e locali».
Come si trova ai fornelli, allora?
«Me la cavo bene. Ho fantasia e inventiva. Preparo ottimi primi di pasta e sughi ma sono a mio agio anche con la carne. Soprattutto arrosti. Ho avuto insegnanti sopraffini».
Più vegetariano o carnivoro?
«Ho una dieta equilibrata. Mediterranea. Mangio poca carne, una volta alla settimana. Forse meno».
Viaggiando per lavoro avrà un'alimentazione irregolare?
«Giro l'Italia almeno sette mesi l'anno, potrei fare una mappa di alberghi e ristoranti».
In testa alla graduatoria cosa c'è?
«In genere Nord Italia. Piemonte. Lombardia. Veneto. Emilia. Del Sud mi intrigano verdura e pesce».
Albergo o bed & breakfast?
«Scelgo l'hotel, mi sento più sicuro. Per qualsiasi emergenza c'è un portinaio, di cui non ho mai avuto bisogno. Però mi dà tranquillità».
Cambia spesso o torna nei posti che conosce?
«Sono fedele. Tendo a tornare dove sono già stato e mi sono trovato bene. Se resto soddisfatto non vedo per quale ragione andare altrove».
Ristorazione. Notariato. Teatro. Aggiungiamo anche televisione?
«Al di là di qualche sceneggiato, una delle mie prime apparizioni, nel 1971, è legata alla gastronomia. S'intitolava Colazione allo studio 7 e andava in onda su Raiuno a mezzogiorno. Era uno dei primi programmi di cucina e l'avevo inventata con Luigi Veronelli. Dieci puntate e poi avevo smesso, però era nato un filone».
Ha giocato in casa.
«Quello che avevo imparato da mamma e papà è servito».
Da Novara a Roma passando per Milano.
«Ero un ragazzo di provincia e negli anni '50 e '60 c'era un esodo verso le grandi città. Milano faceva rima con studio, Roma con teatro».
Così è approdato nella Capitale.
«Era un polo di attrazione molto forte che allora ha vissuto un'epoca irripetibile, soprattutto per scrittori, attori e registi che, come me, non erano nati in una metropoli».
Lì ha stretto amicizie importanti.
«Si incontrava facilmente gente come Moravia, Pasolini, Zeffirelli. Io feci amicizia con Giorgio De Lullo e Luchino Visconti che mi hanno formato, impostando la mia carriera. Era la Roma dei caffè di via Veneto e della Dolce Vita».
Appunto. I suoi esordi cinematografici con Fellini?
«Avevo un ruolo marginale, sembravo lì per caso».
Come ha fatto un ragazzo giovane a farsi scritturare da un mito.
«Il casting director del Maestro, Guidarino Guidi, che si occupava degli interpreti minori, mi vide a un saggio dell'Accademia e mi scelse per La dolce vita».
Come ricorda quell'esperienza?
«Sono rimasto tre settimane a veder nascere una scena nella quale c'entravo ben poco. Però ho avuto la fortuna di assistere a una creazione. È un tesoro che porto con me».
Di che cosa si trattava?
«Nella sceneggiatura erano un paio di paginette appena abbozzate. Nessuno sapeva nemmeno come si svolgesse. E dal nulla Fellini ha fatto sbocciare un germoglio. Quel giorno capii che avevo di fronte un genio».
Che cosa le è rimasto di lui?
«Il suo essere Fellini. Amichevole. Falso. Bugiardo. Geniale. Affettuoso. Indifferente. Aveva tutte le qualità e i difetti di un uomo. Tutti. Con l'allure di chi li sapeva portare. Era un albero forte che sopportava ogni scossa. E nei suoi film si vede».
Quale impressione fece nel ragazzo di allora?
«Mi ricordai subito dello Sceicco bianco con Sordi sull'altalena e I vitelloni. Li avevo visti al cinema. Ho sempre avuto memoria fotografica. La tv non c'era e quelle immagini, scolpite nella mente, riemersero sul set. Esserci stato è un privilegio».
E adesso che film guarda?
«Sono rimasto attaccato ai classici. Francesi e italiani. Amo registi come Ingmar Bergman e dalla vita ho ricevuto un grande regalo».
Quale?
«Ho incontrato i miei beniamini».
Chi, in particolare?
«Amedeo Nazzari. Da bambino lo vedevo al cinema. Mai avrei immaginato di recitare con lui La figlia del capitano».
Che tipo era?
«Adorabile. Buono. Umile. Alla mano. Un giorno mi chiese perfino un consiglio su come recitare una scena. Proprio lui. A me che ero alle prime armi. Rimasi stupito ma felice. Come tutti gli uomini intelligenti non aveva preclusioni su chi potesse dargli suggerimenti utili».
Visconti fu un maestro in modo diverso.
«Mi vide a teatro e mi fece fare un salto di età e ruoli: ero giovane, divenni primattore. È stato molto importante per me. Insieme abbiamo girato La caduta degli dei e Ludwig. A teatro abbiamo messo in scena l'Arialda di Testori e Vecchi tempi di Pinter. Passammo insieme anche qualche estate a Ischia».
Che cosa ricorda?
«Fu una stagione complessa, non la definirei mondana. Io lo raggiunsi con la mia fidanzata di allora, Ellen Kessler. Lui era con Helmut Berger. Non aveva un'immensa cultura ma amava approfondire. Quello che sapeva, insomma, lo sapeva molto bene. Un intellettuale onesto, che non frequentava l'arte del bluff».
L'ultima volta che lo vide
«Al teatro Olgettina di Roma, quando era già malato. Io recitavo con Adriana Asti e Valentina Cortese. C'erano tutti quella sera, da Anna Magnani a Burt Lancaster ».
Un mondo perduto.
«Mica tanto. A Bologna Gianni Morandi è venuto a vedere Il costruttore Solness. Era entusiasta, è passato in camerino, mi ha fatto i complimenti e ha voluto un selfie. Poi ha scritto un post Un mito, straordinario, eccezionale. La sera dopo avevo il teatro pieno. Siamo vecchietti brillanti e ci diamo una mano l'un l'altro».
Come se la cava con i social?
«Non li frequento. Mi capita di inciamparci con l'Ipad. Sbaglio, lo so, perché lì le notizie corrono veloci. Diciamo che mi fa piacere sapere che Adriano è sempre Celentano e Mina è un monumento. Siamo una generazione importante, che ha ancora molta creatività».
A proposito di Mina, vogliamo farle gli auguri per gli ottant'anni
«Ho sempre avuto un'ammirazione enorme per lei. Insieme abbiamo girato un film, Io bacio tu baci. Ed è stata la compagna di Corrado Pani, tra i miei affetti più cari. È la più grande cantante che abbiamo avuto. Auguri, straordinaria Mina».
Straordinaria come le Kessler
«Ellen mi ha telefonato, preoccupata per il coronavirus».
Confessi, quanti scherzi le hanno fatto le gemelline.
«Nessuno, perché?».
Erano identiche.
«Io le distinguevo benissimo, le assicuro. Mai sbagliato un colpo».
È stato l'unico al mondo, però.
«Credo proprio di sì (ride). Privilegi di fidanzamento, me lo conceda».
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