E all’improvviso a Sturla sbarcò la peste

Nel giugno di 350 anni fa iniziò il contagio che uccise in 17 mesi il 70 per cento dei genovesi

Pier Luigi Gardella

Erano gli ultimi giorni di giugno di 350 anni fa quando, pare per uno sbarco di merci infette nella zona di Sturla, si diffuse a Genova quella che sarà ricordata dagli storici come la Grande Peste e che provocò la morte di oltre il 70 per cento della popolazione genovese.
Gli storici ci hanno tramandato dettagliati resoconti di questa epidemia, da Filippo Casoni al più recente Romano da Calice, ma chi forse in maniera più diretta visse e scrisse questa drammatica pagina fu certamente Padre Antero Maria Micone di S. Bonaventura. Egli scrisse un vero e proprio trattato che fu dato alle stampe nel 1658, a due anni dall'esplosione del contagio, dal titolo «Li lazzaretti della Città e Riviere di Genova».
Filippo Micone era nato a Sestri Ponente nel 1620 ed ebbe dalla madre una chiara impronta sulla sua formazione morale e religiosa, al punto di convincerlo di vestire la tonaca degli Agostiniani, presenti a Sestri in una attiva comunità. Dopo l'ordinazione sacerdotale si distinse come fervente predicatore, benvoluto ed apprezzato dallo stesso arcivescovo Durazzo. Ma, a 36 anni, si trovò di fronte alla grande tragedia della peste e Padre Antero non esitò ad offrire la sua disponibilità per l'assistenza e la cura degli appestati. Al punto di ammalarsi lui stesso del terribile morbo, dal quale però riuscì a guarire. Divenne Rettore spirituale del Lazzaretto di Consolazione e durante tutto il periodo della pestilenza, che abbracciò l'arco di quasi due anni, Padre Antero ebbe modo di scrivere quella dettagliata cronaca dei fatti che si verificarono per la città e per le riviere e che lui visse in prima persona: in essa illustrò il lavoro e le condizioni di vita nei vari lazzaretti della città e del territorio della Repubblica, da quello della Consolazione, allora poco distante dal Borgo Incrociati, a quello di S. Giovanni Battista in Paverano, a quello di S. Chiara a Sturla, per poi parlare di quelli in riviera a Recco, Chiavari, Savona o nell'entroterra a Gavi e Voltaggio. Illustrò quindi l'organizzazione di questi lazzaretti col medico, lo speziale, l'infermiere, il provveditore il cuoco dedicando altri interi capitoli alle funzioni dei «beccamorti» e delle balie all'interno del lazzaretto.
La peste rimase a Genova per oltre diciassette mesi: dopo la prima ondata di contagi a partire dal giugno 1656 e proseguita per parecchi mesi ebbe una apparente pausa con i tempi più freddi. Già si iniziava a sperare nella fine della calamità innalzando lodi al Cielo per lo scampato pericolo, quando nel maggio 1657 il morbo riprese la sua virulenza con un crescendo impressionante, i decessi arrivarono a oltre mille al giorno e il grado di fatalità (vale a dire la probabilità di morire per chi era contagiato) arrivò a superare il 96 per cento. I problemi che si presentarono alla città furono immensi: chi poteva si trasferiva nelle ville di Albaro, Quarto e della riviera, sperando in una improbabile immunità fuori dal territorio urbano, ma chi restava non aveva fornai che facessero il pane, non venivano i contadini del Bisagno a portare le verdure e non c'era modo di evitare quel contagio che si diffondeva senza alcuna speranza. Dove non colpiva la peste, pertanto, colpiva la fame. Encomiabile secondo gli storici, fu l'operato dei Serenissimi Collegi, e dello stesso Doge Giulio Sauli. Nessuno abbandonò il Palazzo e da lì tutti cercarono di dirigere tutta quella vasta e complessa organizzazione della città in tale frangente. Come altrettanto encomiabile fu l'operato delle istituzioni religiose e di tanti singoli preti, suore e frati, come appunto lo stesso Antero Maria che, rischiando il contagio, si prodigarono per l'assistenza, per la cura e, purtroppo, per la sepoltura dei contagiati.
Altri contemporanei, oltre a Padre Antero, scrissero sulla peste e addirittura ci sono rimasti due poemetti che ne illustrano la tragedia. Monsignor Lodovico della Casa, Agostiniano, Vicario della Congregazione a Genova dal 1678, scrisse la «Genova piangente per la peste» una monodia dove la personificazione della peste è viva ed impressionante, dove la terra genovese «di corpi insepolti è seppellita».

Ed anche un poeta genovese Giuliano Rossi, che perse lui stesso la vita per la peste del 1656 scrisse un tragico poemetto in dialetto genovese «Invention dra peste» che inizia significativamente «Frè, nuoi semo intra peste fin'à oeuggi, stè pù lontan se puoei, stè pù a Pariggi».

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