E i finiani si arrampicano sui muri

Pure il Fli sui cornicioni dopo democratici, intellettuali e cantanti: l’ultimo gioco di società è salire in vetta agli edifici Peccato che nessuno abbia a cuore il futuro dell’università. Cavalcano la protesta solo per far cadere Berlusconi

Quello che sta accadendo non è purtroppo solo una citazione felliniana. Ciccio Ingrassia arrampicato su un albero che urla disperato «voglio una dooonnaaaaa». A vederli lassù, da lontano, un po’ ricordano il volto scavato dello zio matto. Ma non è così. Quelli che salgono sul tetto non ci vanno per disperazione, non sono folli, non sono neppure ribelli e se dicono che stanno lassù per protestare contro la riforma universitaria non ci credete. Mentono. L’università è una scusa. Non frega niente a nessuno. È solo un modo per farsi vedere. Andare sul tetto è prima di tutto una moda. È come parlare a Vieni via con me. Non sei colto e famoso se non ci vai. È, per politici e intellettuali, l’ultimo gioco di società. Insomma, una festa. Salgono i professori, salgono gli studenti, sale Bersani, sale Di Pietro, salgono Vendola e Venditti, si arrampicano i finiani. Granata, Della Vedova, Chiara Moroni, Flavia Perina arrivano il giorno dopo, anche loro partecipano alla festa, rincorrendo in salita la sinistra.
Ora qualcuno dirà che ci sono anche gli operai di Marghera sulle torri del petrolchimico, i 36 precari Fiat di Pomigliano d’Arco, tre immigrati sulla torre milanese ex Carlo Erba e senza dubbio altri saliranno. È vero.

C’è anche chi ha problemi seri di lavoro. Sono gli unici che hanno qualche buona ragione. Ma anche loro non sono lì perché hanno a cuore il futuro dell’università. È chiaro che l’autunno caldo quest’anno sta arrivando un po’ più tardi. Quindi chiariamo subito che quelli che stanno sul tetto cavalcano la protesta per cercare ancora una volta di far cadere Berlusconi. Questo a chi ritiene che in democrazia i governi nascono e muoiono grazie al voto elettorale pare un’anomalia. Ma questa è l’Italia. E siamo abituati alle crisi extraparlamentari e alla piazza. L’unica cosa magari è non tirare sempre in ballo il destino della nazione, le ragioni di Stato, la nobiltà d’animo, il senso delle istituzioni, il bene comune, la democrazia, la resistenza, la cultura e neppure l’università. Sa di ipocrita. Basta dire: vogliamo sconfiggere il Cavaliere senza rischiare di contare i suoi voti e i nostri. Non è molto democratico, ma è più onesto.
È per questo che Vendola è solo retorico quando urla da lassù: «Sui tetti d’Italia stanno difendendo le fondamenta della democrazia, perché l’istruzione è un bene pubblico e comune». Lo stesso discorso vale per tutti gli altri, in particolare i finiani che parlano sempre di futuro ma appena una prova a mettere in cantiere una riforma loro la bombardano alle spalle in Parlamento. È la guerriglia dei reazionari dichiarata in nome di un ipotetico «fare futuro».
Il paradosso è proprio qui. Quando senti parlare di università non c’è praticamente nessuno che dica: funziona. Professori, studenti, intellettuali, ricercatori, perfino i bidelli sanno che il sistema è crollato. I ragazzi appena si avvicinano al giorno della laurea vanno in crisi, vedono il futuro come una densa nebbia e pensano che tutto quello che hanno fatto in quei tre anni più due quasi sempre garantisce né cultura né lavoro. I ricercatori si lamentano di un sistema feudale dove i baroni scelgono chi far entrare nella cittadella occupata. I concorsi hanno quasi sempre un vincitore già designato. La meritocrazia è rara. I piccoli atenei di provincia svendono lauree per attirare studenti. I vecchi sono superaffollati, stritolati dai grandi numeri e per chi ci studia è praticamente un corso di sopravvivenza contro il leviatano burocratico. Anni e anni di aggiustamenti e ritocchi hanno peggiorato la situazione.

La riforma della Gelmini non sarà il paradiso, ma molti riconoscono che cerca di combattere i mali più evidenti. Ci sono dei tagli, ma c’è anche la crisi. Ma quello che sta accadendo alla Camera non è un dialogo. Non è un tentativo serio di costruire una riforma. È una serie di imboscate. Questa riforma vogliono ucciderla. È come se ogni volta che qualcuno cerca di segnare un punto sulla mappa del futuro, i reazionari si muovono in massa per cancellarla. Ecco. Andare sul tetto oggi non è folle. Non è l’urlo di un matto. È solo reazionario.


Il traffico sul tetto della facoltà di architettura è il segno della nostalgia di una generazione segnata dal ’68. Si va a Valle Giulia, lì dove tutto cominciò, quasi per ricordare una giovinezza perduta. A pensarci c’è qualcosa di felliniano in questa storia. L’albero di Ingrassia è una scena di Amarcord.

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