E dal mare dei vichinghi spunta l'astronave italiana. Ma c'è già chi protesta

Cinque miliardi di investimento e 100mila barili al giorno. Il Wwf però accusa: "Siamo il Paese in prima linea per i rischi ambientali, ma poi guidiamo la corsa al petrolio nell'Artico"

Da Stavanger - Si chiama Goliat e naturalmente è un gigante; una gigantesca astronave galleggiante che è partita dai cantieri navali della Corea del Sud e sta navigando per gli oceani diretta al Mare artico norvegese, dove arriverà tra un paio di settimane e diventerà la piattaforma offshore più a Nord del mondo. Ma in questi casi basta far parlare i numeri: 62mila tonnellate, 92 pozzi, previsti 100mila barili al giorno, 110 chilometri di cavi elettrici da 75 megawat di potenza che collegheranno Goliat alla costa. Cinque miliardi d'investimento, due terzi sborsati dall'Eni e un terzo da Statoil, la compagnia petrolifera statale norvegese che per legge partecipa a tutte le operazioni.

Goliat sarà l'evento dell'anno in Norvegia, fa più notizia della rotondità della principessa Mette-Marit. «Certo, sarà la nuova frontiera dell'estrazione petrolifera. Siamo orgogliosi di tanta attenzione», dice Franco Magnani, responsabile Eni per il Nord Europa e la Russia nel quartier generale della compagnia a Stavanger. «Un bel modo per celebrare i 50 anni della nostra presenza in Norvegia. Noi eravamo qui da prima che si scoprisse il petrolio nel 1969. E la concessione allo sfruttamento nel Mare di Barents è arrivata dopo una nostra scoperta esplorativa e perché abbiamo offerto garanzie adeguate alle altissime esigenze dei norvegesi in tema di risposta alle emergenze e di protezione ambientale». Stiamo parlando di un mare estremo, notte artica, onde che possono arrivare fino a venti metri... se succede qualcosa in quelle condizioni, il disastro è di proporzioni inimmaginabili, altro che Golfo del Messico. «Abbiamo navi appoggio dotate di sensori e radar, Goliat è stata progettata per operare in condizioni ancora più estreme. E poi è un progetto che porta benefici locali, cosa cui i norvegesi tengono molto. Ad esempio - continua Magnani -, abbiamo formato parte della flotta di pesca della zona in modo che possa rispondere alle eventuali emergenze».

Goliat arriverà a Hammerfest, porto nel Nord del Paese, verso la metà di aprile; dopo un paio di settimane verrà posizionato al largo dove sarà collegato alle strutture già predisposte sul fondo marino e durante l'estate comincerà la produzione che porterà mediamente l'Eni a estrarre dalla base continentale norvegese quasi duecentomila barili al giorno. Ma non mancano le proteste, sia pure garbate, per le concessioni che il governo continua a rilasciare in aree sensibili come quelle artiche, soprattutto per quel che riguarda i rischi ambientali.

«La Norvegia si presenta nel mondo come un Paese determinato a combattere le cause del cambiamento climatico e poi è quello più aggressivo, tra le potenze artiche, nella corsa allo sfruttamento di petrolio e gas», dice Nina Jensen, responsabile del Wwf norvegese e sorella di Siv Jensen, ministro delle Finanze dell'attuale governo conservatore, che ha posto l'Artico in cima alle sue priorità, sia da un punto di vista energetico che strategico (pensiamo alla crescente militarizzazione dell'High North in risposta alla sempre più minacciosa presenza di forze russe). «La Norvegia - accusa Nina - è il Paese che ha più progetti di trivellazione nell'Artico, quello che ha rilasciato il maggior numero di concessioni. Opera in Canada, in Alaska, in Groenlandia. Ci presentiamo nel mondo come una nazione molto consapevole dei rischi ambientali, ma poi guidiamo la corsa al petrolio artico.

Un paradosso: l'Artico si scioglie a causa dei combustibili fossili e vogliamo andare lassù a estrarre petrolio e gas... Un recente studio pubblicato da Nature elimina ogni dubbio: per provare ad attenuare il cambiamento climatico bisogna smettere di trivellare nell'Artico».

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