Avrebbe appena compiuto ottant’anni, Domenico Modugno, se fosse ancora tra noi non solo grazie allo zelo della memoria, ma in carne e ossa. Quantunque suoni irreale immaginarlo ottantenne, offeso dalla calvizie e dalla canizie, il bellissimo viso sconciato dalle rughe: lui che più di qualsiasi altro artista ha incarnato l’utopia della giovinezza perpetua, col relativo mélange di guasconeria e romanticismo, tenerezza e accensione dei sensi, allegria e candore, anche dopo che un ictus gli inflisse una semiparalisi senza fiaccarne l’energia. E infatti lo vedemmo condurre bravamente i suoi concerti, inchiodato a una sedia ma pronto ad ergersi, indomito, nella sfida di Volare, quel sogno chagalliano levato come un dardo nel cielo blu.
Ecco, Volare compie mezzo secolo, è ormai un evento remoto e tuttavia nulla è più attuale di quel grido d’amore, sul quale si sono via via esercitate le voci dei Gipsy King, di Bowie, Ella Fitzgerald, McCartney, Pavarotti, e al quale il mondo intero regalò il trionfo inusuale di quaranta milioni di dischi venduti. Nulla è più moderno di quell’irruenza selvatica, di quell’urlo d’animo e di sensi scagliato entro, e contro, il più agghindato e retrivo dei festival. Quel giorno un genio - il temerario innovatore di cui Fabrizio De André mi confidò, anni dopo, che «se prima non ci fosse stato Mimmo, oggi non ci saremmo noi» - si svelava al mondo. Anche se, già in quel 1958, Modugno non era più un novellino. Nato trent’anni prima a Polignano a Mare, Bari, aveva studiato senza profitto ragioneria, aveva fatto il manovale, il gommista, il posteggiatore, senza evitare la pratica dei pasti saltati e delle notti all’addiaccio. Fino a scrivere, poco più che ventenne, le prime canzoni in siciliano, Lu pisci spada, Lu muciu niuru, Cavaddu ciecu de la minera, Lu minatori, Lu sciccareddu 'mbriacu - vere tragedie greche condensate in tre minuti, delle quale gli dissi una volta, e lui commosso assentì, che restavano le sue creazioni più belle, le più portentose.
Intanto debuttò in teatro con Baseggio, la Pavlova, la Borboni, Enriquez, recitò nel cinema con Zampa e Eduardo, interpretò Molière e Pirandello, imparò ad esercitare il suo talento naïf nel mondo restio degli intellettuali. Ed è facile intuire che ribaldo, irresistibile Mackie Messer sia riuscito a creare, vent’anni dopo, affidandosi al genio registico di Strehler in un’epocale Opera da tre soldi.
Ma qui si divaga, ed è ovvio, trattandosi d’un talento così sconfinato e di un istinto brado, cui non occorreva una speciale cultura per creare alcune canzoni di scarso peso, e molti capolavori. Dunque, nel ’58, approda a Sanremo Volare, suggerita da un quadro di Chagall, scritta con Franco Migliacci e musicata d’acchito, in un gioioso delirio inventivo. Ma già aveva alle spalle, Mimmo, una vera carriera: col lieve divertissement di Musetto, il sorriso agrodolce di Lazzarella, la supplica fervida di Resta cu ’mme, lo straziante addio di Strada 'nfosa, con quel paesaggio di pioggia e l’amore che frana senza spegnersi. E Senza nisciuno, e Io mammeta e tu, e il tormento definitivo di Apocalisse, e l’euforia panica di Sole, sole, sole, «a notte se sperde in ta mattina/o vico chiane chiane se schiara/e vvene 'o sole...». Fu il viaggio a tappe d’un guastatore di genio, per smantellare via via un edificio, quello della vecchia canzone italiana, che illanguidiva tra ragnatele e crepe. Modugno lo demolì: senza volerlo, magari, col suo stile irrituale, la voce incolta, la contagiosa naturalità. E con una scienza del linguaggio, mi disse un giorno Aznavour, «che lo obbligava a sovrapporre a ogni melodia le parole più acconce, immodificabili».
Ma ancor più, forse, con una teatralità prepotente, che fulgeva nelle canzoni ma s’allargò all’attore, e all’artefice di commedie musicali: Rinaldo in campo, Tommaso d'Amalfi, Cyrano da Rostand, Il marchese di Roccaverdina da Capuana, Don Giovanni in Sicilia da Brancati sono tra i titoli. Senza che la canzone cessasse mai d’impegnare il suo talento. Mentre, sulla sua scia, sorgeva in Italia la rivoluzione dei cantautori, ecco nascergli Vecchio frac: un paesaggio notturno affonda nel silenzio, lampioni addormentati nel buio, le strade svuotate e un uomo in frac, tutto solo, che scivola via verso il nulla. S’intrecciano realtà e surrealtà, il canto evoca uno spleen pacato, lunare, e ad ascoltare vengono i brividi.
Ben si capisce come anche i poeti s’inchinino a tanto talento. Montale lo ammira, Pasolini scrive con lui Cosa sono le nuvole, Quasimodo offre alla sua musica due liriche, Ora che sale il giorno e Le morte chitarre.
Cesare G. Romana
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